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Sport
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Regole & Sport - 3
Il calcio salvato con decreto legge
Vincenzo Senatore
Fino al 2003 la clausola compromissoria
contenuta nei regolamenti della Figc, quel patto tra
gentiluomini secondo cui un tesserato avrebbe potuto adire la
giustizia ordinaria solo dopo aver ottenuto regolare
autorizzazione dagli organi di governo calcistici, regnò
sovrana a tutela dell’autonomia dell’ordinamento
sportivo-calcistico rispetto ad eventuali
“incursioni” dell’ordinamento statale.
Come già abbiamo avuto occasioni
di scrivere, i fatti dell’estate di quell’anno, con
i reiterati provvedimenti di Tar disseminati lungo la penisola,
fecero vacillare vistosamente quel principio.
Quel patto fra gentiluomini
Non che fino a quel momento lo Stato
fosse rimasto sempre e comunque fuori dalle controversie
insorte in ambito sportivo; storicamente, anzi, possiamo
ricordare l’ammissione della squadra del Canosa, disposta
dalla giustizia ordinaria, al campionato di serie D sul finire
degli anni 70 e, soprattutto, il primo e il secondo scandalo
del calcio-scommesse (rispettivamente anni 1980 e 1986) che
nacquero proprio da attività di indagine sorte,
proseguite e definite presso la magistratura inquirente della
Repubblica e, in tempi relativamente più recenti, il
provvedimento del Tar di Catania (estate 1993) con il quale si
imponeva la riammissione del club etneo, presieduto da
Massimino, nei campionati professionistici, dopo
l’esclusione decretata dagli organi federali per
inadempienze economiche.
Anche il legislatore, proprio in seguito
al summenzionato secondo scandalo scommesse, intervenne nel
1989 con la Legge 401 per sanzionare penalmente tanto la frode
in competizioni sportive, quanto l’organizzazione di
scommesse illegali aventi ad oggetto gare ricomprese nei
concorsi pronostici del Coni, quanto, infine, la violenza negli
stadi, dimenticando incredibilmente di sanzionare anche le
condotte di doping.
Incursioni della magistratura ordinaria
In tale ambito l’attesa si
rivelò particolarmente lunga, al punto che solo nel
dicembre 2000 fu approvata la legge da più parti
invocata per contrastare una pratica che, nel frattempo, aveva
trovato terreno molto fertile anche in Italia e presso
molteplici discipline sportive. Più tempestivamente,
invece, nel 1981 era intervenuta la Legge 91 contenente la
disciplina del lavoro subordinato sportivo.
Va detto, tuttavia, che i sopra
ricordati interventi della Magistratura ordinaria non furono
mai considerati come vere e proprie minacce all’autonomia
dello sport. Non certamente le indagini da cui scaturirono i
due scandali scommesse degli anni 80, ma neanche i due, a dir
il vero, isolati provvedimenti di riammissione di squadre a
campionati dai quali erano state escluse. Nel primo caso il
fragore dello scandalo fu ben più grave rispetto alla
remota, possibilità che da quegli eventi potesse
derivare un vulnus per l’ordinamento sportivo; nel caso,
invece, delle decisioni che riguardarono prima il Canosa, poi,
a distanza di circa tre lustri, il Catania, il mondo dello
sport, incassato il colpo, seppe ripartire imponendo a tutti i
suoi tesserati l’antica regola dell’autonomia, che
nessuno osò mettere in discussione.
Crescono gli interessi economici
Probabilmente a quel tempo il sistema
era ancora pienamente efficiente, valido ed adeguato a reggere
il peso del movimento sportivo che, anche in ambito calcistico,
pur in presenza di un professionismo sempre più
allargato, non era stato invaso da interessi economici di
grande portata. In assenza di sponsor e diritti televisivi, per
le società sportive, che ancora non erano state
trasformate in società a fini di lucro, l’oggetto
esclusivo era rappresentato ancora dalla sola pratica
agonistica.
Nel 2003 il vento era cambiato; da
almeno un decennio, se non più, il business era
diventato la ragione principale di vita delle società
calcistiche professionistiche, anche di quelle di seconda
fascia, militanti nel campionato di serie B. Alcuni prestigiosi
sodalizi erano stati addirittura quotati in borsa. Tutti gli
altri, orbitanti fra serie A e B, ma anche C1 e C2, avevano
assunto le vesti di società di capitali. Anche se
nessuna controversia di rilievo aveva ancora scalfito
l’antica autonomia dello sport, era evidente che, per
tutto ciò che non riguardava l’attività
agonistica in senso stretto, le regole da applicare erano
quelle del Codice Civile, oltre che della L.91 del 1981.
Duri conti coi bilanci
La situazione precipitò, intorno
al 2000, quando ai più fu evidente che una
società sportiva (in particolare calcistica) non avrebbe
potuto contemporaneamente rispettare le regole di un bilancio
corretto, i numerosi pagamenti fiscali e assistenziali e,
contemporaneamente, puntare alla vittoria, per la quale, tenuto
conto dell’entità elevatissima raggiunta dagli
ingaggi, si rendeva necessario l’esborso di cifre che
nessun incasso, con diritti televisivi e sponsorizzazioni
annesse, avrebbe mai potuto pareggiare. La crisi colse dapprima
le piccole società, le quali, proprio in ragione della
L.91 del 1981, già da tempo erano state private della
loro principale fonte di sostentamento, vale a dire la
valorizzazione e la vendita di giovani del vivaio (essendo
stato abolito o, comunque, fortemente ridimensionato il
vincolo), poi si estese alle grandi. Nell’estate del 2002
veniva estromessa dai campionati, per lo stato di decozione in
cui si era venuta a trovare, una società vincitrice di
due scudetti, di Coppe Italia e di una coppa europea, vale a
dire la Fiorentina di Cecchi Gori.
L’allarme rosso a quel punto era
scattato per tutte le altre grandi, dal cui novero era
già uscito il Napoli, a sua volta agonizzante nel
campionato di serie B. Fu in quella situazione che il calcio,
la disciplina regina dello sport, fino a quel momento
orgogliosamente fiero della sua autonomia dalle istituzioni
statali, chiese aiuto al Governo nazionale. Per far fronte alla
grave crisi di liquidità in cui versavano tutte o quasi
le società calcistiche maggiori fu adottato
d’urgenza un decreto legge, modificativo della Legge 91,
che introduceva per le società di serie A e la B la
possibilità di spalmare su un decennio le svalutazioni
del patrimonio legate al crollo del valore di mercato dei
giocatori. In tal modo se la quotazione di un centravanti fosse
scesa da 100 a 50, tale svalutazione solo per un decennio
avrebbe pesato sul bilancio del 2003, il resto veniva
distribuito sugli altri nove anni.
Soccorso senza precedenti
L’aiuto fornito dallo Stato alle
squadre di calcio, non aveva precedenti. Formalmente la
clausola compromissoria era ancora salva. Di fatto era stata
clamorosamente svuotata di ogni significato. Quelle misure
“assistenziali” furono fortemente criticate da
imprenditori operanti in altri settori, diversi dallo sport e,
soprattutto, furono avversate dalla Commissione
dell’Unione europea, la quale, in particolare,
ravvisò nel provvedimento, che si traduceva in un
evidentissimo favore fiscale, i connotati dell’
“aiuto di Stato”, con grave lesione del principio
della concorrenza in ambito comunitario. Per effetto di quei
rilievi il provvedimento fu, in seguito modificato, e la
spalmatura fu ridotta da dieci a cinque anni.
Senza, comunque, entrare ulteriormente
nel merito di quella norma, essa assume in ogni caso una
valenza storica, segnando, inequivocabilmente, il momento nel
quale per la prima volta non fu lo Stato ad entrare nello
sport, ma al contrario fu lo sport a chiedere allo Stato un
intervento.
Da quel momento, come gli eventi
dell’estate 2003 - sui quali ci siamo già
soffermati (numero di febbraio 2007 di Panorama Tirreno) -
avrebbero dimostrato, il principio dell’autonomia dello
sport rispetto all’ordinamento nazionale assunse le
sembianze di una vuota formula.
Il decreto-salva calcio e poi ancora la
L.280 del 2003, con l’art.5 che conteneva il suggerimento
del legislatore al Coni ed alla Figc di modificare il format
della serie B per consentire di far partire i campionati, non
furono due arbitrarie intrusioni dello Stato nello sport, ma,
al contrario, furono altrettante risposte
dell’ordinamento repubblicano alle richieste disperate di
aiuto provenienti da dirigenti sportivi ormai non più in
grado di risolvere da soli i problemi del loro mondo.
In attesa di nuove regole
Quei due provvedimenti dicevano
chiaramente che l’autonomia dell’ordinamento
sportivo era ormai solo una bandiera, ma che, nei fatti,
nessuno più la voleva.
Alla luce degli eventi verificatisi nel
2006, tale convinzione esce rinforzata; è tempo ormai di
dare allo sport nuove, più adeguate regole, mettendo da
parte l’ormai superato concetto di autonomia. Questo
dovrà valere ancora per le decisioni adottate nel campo
di gioco e per le sanzioni ad esse più strettamente
correlate (es. squalifiche di calciatori o tesserati espulsi,
squalifiche di campo per intemperanze); per tutto il resto deve
farsi largo il principio della specializzazione, in
virtù del quale, lo Stato, riconosciuta la
peculiarità del mondo dello sport, appronti un testo
unico di leggi speciali che regolamentino le vicende delle
società e delle associazioni, i loro obblighi e diritti
e la soluzione delle eventuali controversie, ivi comprese
quelle tra singoli tesserati o singoli sodalizi e organismi
federali e/o del CONI.
Panorama Tirreno, maggio 2007
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