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Regole & Sport - 2
Quel gran pasticcio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo: rivedere la legge 280
Vincenzo Senatore
Nell’estate del 2003 l’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto all’ordinamento statuale, principio fino a quel momento mai da nessuno posto in discussione, fu improvvisamente travolta da una serie di ordinanze di urgenza emesse dai TAR di Catania, Genova e Salerno. La clausola compromissoria contenuta nei regolamenti della Figc, secondo cui un tesserato avrebbe potuto adire la giustizia ordinaria solo dopo aver ottenuto regolare autorizzazione dagli organi di governo calcistici, quel vero e proprio patto tra gentiluomini sul quale si era retta l’autonomia della più importante disciplina sportiva, fu repentinamente travolta, superata dagli eventi.
D’altro canto la summenzionata clausola si riferiva, sia pure implicitamente, ad ipotesi in cui, insorta una lite tra tesserati, l’uno dei due intendesse investire della quaestio l’autorità giudiziaria (tipico il caso di lesioni riportate nel corso di una gara). In tali casi, gli organi federali erano chiamati, nella loro neutralità, a valutare l’opportunità o meno di rilasciare la richiesta autorizzazione. Nell’estate 2003, tuttavia, la lite non era sorta tra tesserati, ma tra un tesserato, il presidente del Catania calcio, e la stessa Figc. Va detto, in premessa, che alla base di quello che si sarebbe rivelato il primo di una serie di terremoti che avrebbero, nel giro di pochi anni, fortemente scosso e, poi, definitivamente abbattuto il governo federale, vi era un vero e proprio pasticcio, posto in essere dalla giustizia sportiva. Nel mese di aprile 2003 un calciatore del Catania fu schierato dalla formazione etnea irregolarmente; la disciplinare penalizzò i siciliani togliendo loro i tre punti conquistati sul campo. La classifica fu influenzata notevolmente, al punto che il Catania si ritrovò al quart’ultimo posto; fra gli altri ne beneficiò il Napoli che,quasi all’epilogo di un mortificante campionato, si ritrovò ad un passo dalla serie C. La Caf, tuttavia, ribaltò il verdetto della disciplinare restituendo al Catania i tre punti. Il merito della vicenda non interessa, interessa, invece, evidenziare che a distanza di qualche giorno, quel verdetto fu ancora una volta ribaltato, con nuova penalizzazione del Catania, da parte della Corte Federale.
Quella - si ribadisce a prescindere dal merito della questione - fu davvero una decisione abnorme sul piano procedurale. Per la prima volta, infatti, la Caf (fino a quel momento considerata la Cassazione del calcio, essendo i suoi verdetti definitivi, in quanto inappellabili) veniva cassata da un organo, la Corte Federale, che, fino ad allora, aveva svolto esclusivamente funzioni consultive. Nel caso di specie, la Corte Federale, adita dai controinteressati per un parere, andò oltre i propri poteri, adottando essa stessa una decisione, che, invece, poteva e doveva essere emessa unicamente da organi della giustizia sportiva. Su tali basi si fondò il ricorso al Tar di Catania presentato dal presidente Gaucci. Il tribunale amministrativo siciliano, riconoscendo la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, ordinò la riammissione del Catania in serie B, nel frattempo retrocesso in serie C proprio a causa di quella penalizzazione. Seguirono giorni convulsi con provvedimenti a raffica da parte di Tar disseminati sul territorio nazionale: fra i primi di luglio e la metà di agosto, per effetto di ordinanze dei giudici amministrativi, si assistette, più o meno in ordine cronologico, alla retrocessione del Napoli in C a beneficio del Catania, alla riammissione del Catania in B in soprannumero, alla riammissione del Genoa e quindi alla riammissione della Salernitana.
Il 18 agosto 2003, a dieci giorni dall’inizio del nuovo campionato, le squadre che vantavano titolo a partecipare alla serie B erano 23, 20 per effettivi meriti sportivi e 3 per decisione dei Tar di Catania, Genova e Salerno. L’unica retrocessa di quella stagione a non aver ottenuto il provvedimento di riammissione era il Cosenza, casualmente l’unica società a non aver in sede un tribunale amministrativo, che, anzi, a causa dei debiti fu del tutto estromesso dai campionati professionistici. Fu in quel contesto che fu emanato uno dei più paradossali provvedimenti legislativi della storia dell’Italia repubblicana. Il decreto-legge n.220 del 19 agosto 2003. Un provvedimento che all’art.1, comma I, stabiliva con solennità “la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale” ed all’art.5 letteralmente suggeriva alla Figc ed al Coni di mutare i format dei campionati al fine di dare il via alla stagione agonistica. Grazie a quel “suggerimento” il giorno dopo fu varata una serie B a 24 squadre con le tre “ripescate” Catania, Genoa e Salernitana e con la miracolata Fiorentina, appena promossa in serie C1, che fu catapultata in serie B, ai danni del piccolo Martina, al quale, in forza delle classifiche maturate sul campo nella stagione appena conclusa, quel posto sarebbe spettato. A riprova della natura “anomala” della norma contenuta nell’art.5, palesemente in contrasto con il principio di autonomia enunciato all’art.1, tale disposizione fu soppressa in sede di conversione in legge del decreto. Tale soppressione di fatto rendeva illegittima la riammissione in serie B delle quattro squadre sopra menzionate, ma la legge di conversione giunse il 17 ottobre 2003, a stagione agonistica ormai ben avviata, e quell’ennesimo pasticcio non provocò altri danni, almeno nella immediatezza.
La legge 280 del 2003, partorita in tutta fretta dal legislatore per fronteggiare la situazione di caos sopra ricordata, contiene, nella sua versione definitiva, disposizioni di principio, che, nell’estate 2006, sono state poste fortemente in discussione. D’altro canto si tratta di un provvedimento legislativo del tutto improvvisato, con disposizioni dal tenore assolutamente generico e del tutto inadeguate a regolare il delicatissimo rapporto tra ordinamento sportivo ed ordinamento dello Stato. La legge si compone di soli quattro articoli, di cui l’ultimo regola esclusivamente l’entrata in vigore ed il terzo individua nel Tar del Lazio l’unico tribunale dello Stato competente a pronunziarsi su atti del Coni e di federazioni sportive, una volta esauriti i gradi della giustizia sportiva. A dire il vero, l’art.3 riconosce la competenza dei giudici ordinari sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti; ma tale disposizione, non secondaria, è contenuta in un semplice inciso; essa, tuttavia, non si presta agli equivoci ed incertezze che accompagnano la lettura dell’art.1 comma II. In tale disposizione letteralmente si legge: “I rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”. L’assoluta chiarezza espositiva della proposizione principale si scontra con l’assoluta genericità dell’annessa clausola di salvezza. Non aiuta, invero, nella interpretazione di quest’ultima la duplice precisazione contenuta all’art. 2, comma I, secondo cui è riservata all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive. I fatti verificatisi nell’ultima estate, e, in particolare, la retrocessione in serie B della Juventus, società quotata in borsa, ha posto in risalto l’assoluta precarietà del principio dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, proprio alla luce della clausola di salvezza sopra menzionata. Ed infatti, che la sanzione disciplinare irrogata della retrocessione fosse riservata all’ordinamento sportivo non è dubitabile, alla luce dell’art.2 della L.280/03, tuttavia non pare parimenti dubitabile che la tutela dei diritti patrimoniali della società e dei singoli azionisti rientrasse fra le situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo e, pertanto, pienamente rilevante per l’ordinamento giuridico statuale.
Sarebbe stato interessante, sul piano giuridico, verificare l’orientamento del Tar del Lazio sul ricorso annunziato e, poi, revocato dalla società bianconera. A prescindere dal merito, è altamente probabile che l’azione non sarebbe stata dichiarata ammissibile e, cioè, che i giudici dello Stato non avrebbero dichiarato il difetto di giurisdizione. D’altro canto le situazioni giuridiche connesse con l’ordinamento sportivo sono innumerevoli e non classificabili ed eventuali future norme finalizzate a comprimerne o impedirne l’azionabilità innanzi alla magistratura amministrativa o ordinaria presenterebbero profili di elevata incompatibilità con la Carta Costituzionale. E allora, come se ne esce?
Appare auspicabile senz’altro una riscrittura della intera legge che non sia figlia dell’emergenza e del caos, ma che, al contrario, sia preceduta da una riflessione serena ed approfondita. In via preliminare è assolutamente necessario chiedersi se l’autonomia dell’ordinamento sportivo, intesa in senso ampio, secondo una visione tradizionale, sia ancora attuale o se, al contrario, tale autonomia sbandierata dalle istituzioni sportive non sia più in linea con un movimento sportivo nel quale il professionismo, gli sponsor ed i diritti televisivi e radiofonici hanno assunto carattere di preminenza nel calcio, anche per le categorie inferiori, e per la maggior parte delle discipline sportive.

Panorama Tirreno, febbraio 2007
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