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storia
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Il diluvio si abbatté su Cava e la
Molina
così cambiò il paesaggio
dalla Badia a Vietri
26 ottobre 1954: Le campane di S.
Francesco alle 5 del mattino...
Piovve tanto e ininterrottamente quasi
tutto quel 25 ottobre. Quelli che dal lavoro tornarono a casa a
sera, erano letteralmente inzuppati, come un mio caro che non
riusciva nemmeno a pronunciare parola nel tentativo di
raccontare di tanta pioggia, dei fiumi di fango che
l’avevano terrorizzato lungo la strada. E calò la
sera: si cenò e poi, forse imprudentemente, si
andò a letto.
Ma chi avrebbe mai pensato che al
risveglio, alle cinque del mattino, le campane della chiesa di
San Francesco suonassero a distesa non per annunziare la
quotidiana messa del mattino, ma uno stato di grave
calamità, tragica conseguenza di una notte da tregenda.
Coloro che uscirono all’alba si
unirono a tanti altri che raccontavano di tetti scoperchiati,
di case trascinate a valle dalla furia degli elementi, di
morti, di tantissime persone che erano passate dal sonno alla
conclusione violenta della loro esistenza.
L’acqua e il fuoco sono elementi
essenziali della nostra vita, ma, purtroppo, non una sola volta
diventano insospettate cause di sventura e di morte.
Mario Prisco
Case, veicoli e persone sepolte
Di quel tragico evento, data la mia
giovane età (allora!), conservo ricordi confusi che si
alternano, a volte, ad immagini vive, quasi che quelle scene
fossero adesso dinanzi ai miei occhi. Ho il ricordo di una
giornata grigia, cupa, durante la quale la pioggia cadeva
violenta ed ininterrotta. Fin qui nulla di anormale,
considerata la stagione; rammento, però, che con il naso
continuamente schiacciato contro i vetri della finestra fissavo
l’acqua con un senso di angoscia, quasi presagissi quello
che di lì a poco sarebbe purtroppo accaduto.
Ricordo vagamente che in tarda serata
rincasò mio padre tutto ansante, gridando che il
“corso” era completamente allagato; I’acqua
gli era arrivata quasi alle ginocchia ed il “Circolo
Democratico” (si trovava in piazza Duomo, nei locali
dell’attuale rosticceria Peppe ed adiacenti), ove a volte
trascorreva qualche ora con gli amici, era stato invaso dal
tumultuoso ammasso di liquido e fango che allagò tutti i
negozi. Inoltre papà riportò la voce, sparsasi
con grande rapidità, che alcune frane erano cadute a
Vietri sul Mare ed alla Molina, seppellendo case, veicoli e
persone. Riferì anche di vari altri disastri, alcuni dei
quali nei giorni successivi si mostrarono in tutta la loro
drammatica evidenza.
Il “Ponte del Diavolo”
Rammento poi che nei giorni seguenti il
centro di Cava era ingombro di cumuli di fanghiglia e detriti
alluvionali e, sulla strada statale, aveva luogo un intenso
andirivieni di automezzi militari e di camion carichi di generi
di soccorso. Con il tempo a Cava cominciarono a passare di
bocca in bocca notizie destinate a divenire sempre più
terribili e funeste, amplificate e distorte dalla fantasia
popolare. In pratica, il numero degli scomparsi e delle
località “cancellate” dalla superficie della
zona lievitava di ora in ora, fino a raggiungere dimensioni
incredibili anche per un bambino della mia età. Ne
sentii tante e tante!
In seguito ebbi poi modo di verificare
di persona la sfortunata autenticità di alcune di esse,
quali la metamorfosi della spiaggia di Vietri, allungatasi a
dismisura, e la scomparsa del “Ponte del Diavolo”
(nella foto sopra). l’antico acquedotto sovrastante la
Molina di cui sono rimasti in piedi i soli piloni iniziali.
Ciò che, però, ancora oggi
vedo con nitidezza, così come esso si presentava prima
del cataclisma, è il vallone della Badia, là dove
ora sorge il nuovo teatro dei Benedettini (il vecchio fu,
infatti, travolto in quella fatidica notte dal Bonea in piena).
Allora il vallone era attraversato da un mite corso
d’acqua, incanalato in un alveo assolutamente naturale, e
la fontana della “Frestola” era situata al centro,
accanto ad un filare di pioppi, cosi come è ancora
possibile vederla rappresentata in alcune antiche stampe. Nei
pomeriggi d’estate mia madre ci accompagnava a giocare
con il mio fratellino e ci divertivamo a catturare i girini,
che vi si trovavano copiosi.
E ancora oggi, allorquando alle mie
orecchie arriva un’espressione ormai tipica del gergo
cavese, “Me pare a’ lluvione”, si presentano
immediatamente agli occhi quel ruscello e quei miei cari che
troppo presto mi hanno lasciato.
Giuseppe Damiano
Un dubbio: la tragedia poteva essere
evitata?
La rammento benissimo quella sera del 26
ottobre 1954: cominciò a piovere piano piano, una
pioggia sottile, penetrante, insistente.
Andai al cinema Alambra. Sentivo la
pioggia battere sulle vetrate del mercato coperto,
istintivamente lasciai la sala. Pioveva sempre, non avevo
ombrello. Affrontai la piazza deserta precorrendola di corsa.
Insieme a me l’acqua correva fra i sampietrini, mi
copriva le scarpe, mi bagnava i piedi. A casa la mamma era alle
prese con il terrazzino allagato. E pioveva, pioveva sempre!
Sul tardi arrivarono alcune notizie
allarmanti: una frana sulla statale Cava-Salerno, un filobus
fuori strada. Piovve senza tregua tutta la notte.
L’indomani il cielo era livido, un
silenzio innaturale incombeva sui portici. A scuola erano
assenti molti professori e alunni; si apprese del crollo del
ponte dell’Olivieri. Poi i primi comunicati alla radio e
i primi servizi in televisione: alluvione! Salerno disastrata,
la costiera isolata, Alessia, Molina, Vietri ... morti e
feriti.
Si organizzarono immediatamente squadre
di soccorso, benché adolescente non esitati: dovevo,
volevo andare.
Molina spazzata via
Mi aggregai a un gruppo. La statale era
impraticabile. Passando per i monti raggiungemmo Alessia e poi
Molina.
Molina? Non esisteva più,
spazzata via dall’acqua. Solo pochi
“moncherini”, “tronconi” straziati di
cose che ricordavano che lì c’era stato un
villaggio. Davanti ai miei occhi inorriditi un corpo veniva
estratto dalla melma. Il fango che poche ore prima
l’aveva sommerso ora rivestiva le sue nudità di
una pietosa camicia grigiastra: un sudario di argilla. E ne
vidi ancora: una bambina bionda, una donna incinta, un
vecchio… e piangevo, piangevo in silenzio.
Erano tutti uguali questi morti
dell’alluvione: nudi, bianchi, con gli occhi del terrore,
privi di identità e di sesso: erano solo morti.
Fui rispedita di prepotenza a casa dove
mi ricevette il battipanni infuriato della mamma.
Più tardi volle sapere. Come
dirle che Vietri, da noi prediletta per la villeggiatura, non
esisteva più e che tutte le sue amiche e i nostri
compagni di giochi erano morti?
Rosaria avevamo tentato di salvarla,
tendendo una corda da un balcone all’altro, Maria era
stata investita e travolta da un tronco, “Tesoro
mio” e tutti gli altri trascinati in mare dalla valanga
d’acqua e macerie colata giù da Cava e Marina.
Dopo qualche giorno volle andare anche
lei, mia madre, attraverso i monti segnati da artigli
inferociti.
Se non si è conosciuta Võetri
prima di quella notte non si può credere che dove oggi
vi sono argini, strade e giardini vi era un paesino delizioso.
Ora, dopo quella notte, era un deserto spaventoso, una distesa
allucinante di detriti, travi e lamiere contorte, alberi
scheletriti, una cucina a gas con la sua bombola, una
carrozzina per neonati, un materasso.
Rosaria del mare
All’ancora le navi dei soccorsi
avevano preso il posto delle “cianciole”, e sulla
spiaggia dove i pescatori stendevano le reti si allineavano i
morti che il mare, giallo sotto il cielo azzurro, restituiva.
Mia madre non tornò mai
più a Vietri, mai più.
Io ci tornai molto tempo dopo. Il mare
del quale ero stata “Ondina” mi era diventato
estraneo, mi spaventava, identificandosi con la morte, il
terrore, il dolore. Nel suo fondo vedevo macerie e spettri. Il
rumore della pioggia ancora oggi si associa a quel 26 ottobre e
al pianto dei sopravvissuti, alla “Sciumara”, alla
fiumana. Fiumana?
Uno stupido, insignificante torrentello
si era trasformato in un fiume di morte.
Quanto accadde quella notte oggi si
definirebbe disastro ecologico, allora fu solo una delle tante
alluvioni che segnarono gli anni 50.
A distanza di 40 anni con gli occhi
pieni di pianto e delle immagini di quei giorni mi domando
ancora se poteva essere evitato e se sia mai stata resa
giustizia alla natura e agli uomini di quel 26 ottobre 1954, a
quella ragazza: Rosaria ...del mare, quella che giocava con me
sulla spiaggia e correva lungo il fiume. È anche lei
lì, in fondo al mare, dispersa. Avrebbe la mia
età, Rosaria del mare.
Anna Maria Morgera
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