USA, viaggio nel sogno americano in 4 tappe
Enrico Passaro
Cronaca di un dialogo con un tassista sulle Cascate del Niagara e la Costiera
Amalfitana
Un viaggio negli States, non è solo l’occasione per visitare un Paese molto lontano da noi per storia, costumi e
tradizioni. È, per gli italiani una piccola “Radici”, fenomeno di dimensioni meno eclatanti di quello che ha coinvolto i negri d’Africa, ma sicuramente di proporzioni notevoli. Basta parlare un po’ in giro (limitatamente alle nostre conoscenze linguistiche) per scoprire con
molte probabilità un legame, un collegamento, un riferimento preciso con la nostra terra da parte
dei nostri interlocutori. Di primo acchito non ci si meraviglia, ma poi viene
da chiedersi, come abbia potuto questa piccola nostra penisola, lingua di terra
minuscola nel mappamondo, incidere in tale misura, in un modo o nell’altro, nella vita di tanti uomini. Non siamo stati un popolo di colonizzatori
incalliti, come i francesi, gli inglesi e gli spagnoli (a parte qualche
esperienza improvvisata e raffazzonata a pochi passi da casa), eppure abbiamo
lasciato il segno. Qui non parliamo dell’impareggiabile influenza che hanno avuto la civiltà romana o il Rinascimento italiano sull’Europa e sul Mediterraneo; ci riferiamo invece all’America, quell’America che un italiano si limitò a scoprire (Colombo) e un altro a darle il nome (Vespucci), mentre altri la
colonizzarono e la “civilizzarono” sul sangue delle popolazioni indigene. Qui di italiano c’è soprattutto il segno della nostra povertà, le origini sono quelle dell’emigrazione, specie di quella del Sud, e, in principio, dell’emarginazione. Eppure in molti difficili e appena comprensibili dialoghi
occasionali con cittadini statunitensi abbiamo trovato l’opportunità di parlare dell’Italia, o meglio, della Campania. Diciamo di più: se avrete la compiacenza di seguirci , scoprirete che nel cosiddetto nuovo
continente, saremo riusciti a scambiare qualche battuta anche su Cava, Nocera e
la Costiera Amalfitana.
La prima chiacchierata è con un tassista di Buffalo. Buffalo si trova vicino al confine con il Canada, è il naturale punto di riferimento per chi si reca a visitare le impareggiabili
cascate del Niagara. Della città, un po’ anonima come tante altre negli Stati Uniti, ci è rimasto un vago e scarno ricordo, al contrario delle Falls, quell’imponente e spettacolare massa d’acqua la cui immagine e il cui rumore assordante sono impressi in maniera
indelebile nella nostra mente. Delle due cascate che compongono l’unico incredibile spettacolo, le horseshoe canadesi sono senza dubbio le più avvincenti e la cosa in cuor nostro ci ha fatto piacere (non ci piace vedere
sempre primeggiare il gigante statunitense).
Con l’anziano tassista che ci conduceva all’aeroporto abbiamo dialogato un po’ sulle sensazioni che ci hanno regalato con generosità le cascate e mai avremmo immaginato che prima dell’arrivo allo scalo di Buffalo avremmo finito col parlare di un’altra meraviglia della natura: la costiera amalfitana. Abbiamo appreso che il
nostro interlocutore ha un fratello pilota che vive in Italia, dove arrotonda
il già cospicuo stipendio facendo l’interprete (conosce ben sei lingue). Lui, almeno, l’America l’ha trovata nella penisola italiana.
Il nostro tassista, invece, dopo anni di duro lavoro su una macchina a far
scorrazzare turisti e uomini d’affari, a novembre finalmente potrà permettersi di venire a trovare il fratello, «ma il viaggio per me e mia moglie lo pagherà lui», dice.
Quali città visiterà nel nostro Paese?
«Sicuramente Milano, Venezia, Firenze, Roma, giù fino a Napoli, dove voglio salire sul Vesuvio e vedere the coast from Sorrento
to Positano and Amalfi. Mio fratello me ne ha parlato molto bene».
Non crediamo alle nostre orecchie. Ci eravamo limitati a svelargli le nostre
origini italiane, non certo quelle campane, né tantomeno la nostra vicinanza e il legame con la Costiera, non credevamo che
potessero interessargli. Questo particolare ci fa credere alla fine che la sua
stima verso le nostre coste sia sincera e non mera opera di ruffianeria, per
giustificare il successivo salasso economico: 45 dollari per condurci in
aeroporto… Scendiamo dal taxi sicuramente più poveri, ma gonfi di legittimo orgoglio campanilistico.
Se i suoi nonni non fossero emigrati all’inizio del secolo, lui sarebbe oggi un autista dell’Atan
o un contrabbandiere?
È gente cordiale quella americana. Non perde occasione di scambiare qualche
battuta con l’interlocutore occasionale di turno. In particolare, questa attitudine è molto sviluppata qui a Las Vegas, la città più pazza del mondo, dove si può ordinare un “cappuccino” (come lo fanno loro!) seduti al banco di un bar e senza distogliere lo sguardo
da una slot machine, con conseguente e inevitabile emorragia di risparmi.
La tappa a Las Vegas nel Nevada, in pieno deserto, è soprattutto un pretesto, come base di partenza per visitare il Grand Canyon,
uno degli spettacoli più affascinanti del mondo. Indescrivibile! La maestosa silenziosità di quei monti e del fiume Colorado che ha profondamente scavato il suo percorso
nei millenni, in una miscela di colori che si combina a seconda delle diverse ore del giorno,
costituisce un’emozione che difficilmente può essere raccontata adeguatamente.
Alla temperatura settembrina di 38 gradi senza umidità, che non fa tirar fuori una sola goccia di sudore, il nostro approccio di
conversazione è avvenuto con un giovane autista di autobus. La domanda, che ormai capiamo bene,
è la solita: «Where are you coming from?». Veniamo dall’Italia. A quel punto ci ha fatto capire subito che i suoi nonni erano napoletani
ed erano giunti nel Nevada all’inizio del secolo.
Lui, il giovane autista, non conosce una sola parola di italiano. Due
generazioni sono passate e di quelle origini non è rimasto più nulla. Chissà come è andata per quella famiglia partenopea, partita dal porto di Napoli
prevedibilmente con la classica valigia legata con lo spago e tante speranze. E
perché deve aver deciso di fermarsi lì, nel deserto di Las Vegas? L’amico conducente non ha saputo spiegarcelo (o forse noi non siamo riusciti a
comprenderlo); il fatto certo è che lui è un giovane e allegro yankee perfettamente integrato. Cosa farebbe oggi a
Napoli, se le cose fossero andate diversamente per la sua famiglia di origine,
ovviamente nessuno saprebbe prevederlo. Se il suo destino era comunque quello
di portare autobus, sarebbe stato un autista dell’Atan o della Sita; oppure uno dei tanti disoccupati o un contrabbandiere o,
molto peggio, un camorrista. Con una punta di ottimismo, possiamo anche
immaginarlo, perché no, stimato professionista ricco e felice in una villa a Posillipo. La fantasia
non ha limiti! La realtà è che quei legami sono definitivamente spezzati e, forse, ci sentiremmo di dire:
ben per lui!
Ci ha lusingato dicendo che siamo il popolo più simpatico del mondo. È un ritornello conosciuto e, forse, sarà anche vero. Nel corso del breve tragitto ha trovato anche l’occasione di prendere in giro - mettendosi dalla parte nostra, bontà sua - altri due viaggiatori spagnoli: «Li abbiamo battuti ai mondiali di calcio (quelli del 94 negli USA, ndr). Siamo
più forti!». Noi abbiamo annuito sorridenti, ma poi ci siamo dovuti preparare a rintuzzare
l’assalto dialettico dei due iberici, che quella sconfitta rocambolesca non l’hanno ancora digerita. Per fortuna poi siamo giunti alla meta, troncando l’imbarazzante conversazione. Sarebbe stato troppo per noi cimentarci
contemporaneamente su due fronti linguistici. Lauta mancia obbligatoria e
saluti al conducente: “Addio paisà”.
Ricordi americani di un servizio militare nella sede Nato di Napoli e di una
serata al CUC
La terza tappa dei nostri incontri americani è a New Orleans. Qui, almeno in parte, si respira aria di Vecchia Europa, non
foss’altro che per il bellissimo e un po’ decadente quartiere francese. Probabilmente non c’è niente di simile in tutti gli Stati Uniti. Sicuramente ai nostri occhi provoca
enorme piacere e ci mette a nostro agio il ritrovare in una città americana un vero centro storico, punto di ritrovo per residenti e turisti,
affollato non da pendolari frettolosi nelle ore di punta, ma da comitive
vocianti dall’imbrunire all’alba. In particolare, c’è la “Bourbon”, famosa strada di ristoranti, pub e locali notturni, dove è cresciuta e si rinnova tuttora la musica jazz. In verità, nella bolgia notturna attuale sono ormai pochi i locali da cui promanano veri
ritmi jazzistici. Nella “Bourbon” di oggi c’è addirittura spazio anche per il karaoke.
Meglio allora andare per negozi alla ricerca di souvenir, concedendosi, magari
per sbaglio, anche la visita ad uno dei tanti sexy shop. Proprio in un negozio
dove si acquistano poster, compact di dixieland e statuine made in China
abbiamo fatto l’incontro più sensazionale. Il cassiere ci ha rivolto la domanda di rito, “Where are you coming from?” e alla nostra risposta gli si è illuminato il viso. “Italiani? Io ci ho fatto il militare, nella Nato. In tre anni sono stato a
Napoli e a Sigonella”. Che combinazione! E da un abitante di New Orleans è facile aspettarsi che sappia anche suonare uno strumento, per cui il nostro ci
ha spiegato che in quel lungo triennio ha ingannato il tempo suonando nella
famosa banda musicale della Nato. Con piacere gli abbiamo confidato di aver più volte apprezzato le performances di questa orchestra composta da abili
strumentisti, perché Napoli è vicina a Cava de’ Tirreni, dove più volte abbiamo ospitato concerti della banda Nato. Cava de’ Tirreni? Nel sentire quel nome il nostro interlocutore occasionale di New
Orleans, evidentemente dotato di buona memoria, ha raccontato di esserci stato
tanti anni fa. Suonò - ci ha detto - nella piazza principale e in un circolo frequentato da
studenti. Quel circolo - deduciamo - doveva essere evidentemente il Club
Universitario Cavese e in quella serata, con molta probabilità, c’eravamo anche noi ad ascoltare buona musica. Incredibile! Quell’uomo di New Orleans l’avevamo già incontrato sulla nostra strada e addirittura a casa nostra. Dite un po’ se non è piccolo il mondo!
Partì più di venti anni fa in cerca di fortuna, oggi trascorre tutta sola una vita
dignitosa
ma l’America non le ha dato la ricchezza
Aeroporto John Fitzgerard Kennedy: a New York si conclude il nostro viaggio
negli States, che ci ha riservato, come i pazienti lettori che ci hanno seguito
finora avranno constatato, alcune interessanti occasioni di incontro con
persone che, in un modo o nell’altro hanno qualcosa in comune con la nostra terra, la provincia di Salerno.
A poco più di un’ora dalla partenza del volo Alitalia facciamo il nostro ultimo incontro, il più significativo, il più prezioso. Stiamo lì ad osservare i tanti connazionali in attesa di imbarco. L’accento che aleggia, inequivocabilmente, è quello classico italo-americano, per metà inglese maccheronico e per metà siciliano o napoletano. Molti volano in Italia dopo diversi anni, molti altri
tornano in patria dopo una breve visita ai propri cari, che da decenni hanno
scelto di vivere negli Stati Uniti. In queste circostanze i saluti sono un vero
e proprio dramma. Non sono i semplici commiati di una stazione ferroviaria o di
una corriera; qui è un vero e proprio pezzo di cuore che si stacca. Molti di loro si sono rivisti
finalmente per pochi giorni dopo anni di lettere, telefonate e ricordi. Ora
stanno di nuovo per lasciarsi e sanno benissimo che non si riabbracceranno per
molto altro tempo, forse questo è il loro ultimo abbraccio, perché non avranno più l’occasione di incontrarsi. Il distacco è dolorosissimo e giustificatissimi i pianti sommessi e disperati. Noi, semplici
turisti che assistiamo a questo spettacolo, non avevamo mai avuto prima la
cognizione così esatta di cosa può significare dirsi addio come stanno facendo questi nostri connazionali.
È a questo punto che Evelina ci rivolge la parola in inglese, per chiederci
informazioni sul volo. Non siamo dei puristi della lingua, ma dalle poche
parole da lei pronunciate capiamo benissimo che possiamo risponderle in
italiano. E così, parlando entrambi nella nostra lingua madre, apprendiamo che Evelina è di Nocera Inferiore, non è sposata e vive da 22 anni a New York. «Non a New York - precisa, - a Brooklyn», facendo una sottile distinzione che per noi è poco significativa, ma che chi vive nella “Grande Mela” è in grado di apprezzare.
Nel ‘72 decise di assecondare l’invito degli zii di rifarsi una vita lì. Ora che gli zii sono morti, continua a lavorare e vivere tutta sola nella sua
casa di Brooklyn. Torna a Nocera per rivedere le sorelle. Sono passati 8 anni
dall’ultima volta: «Un viaggio in Italia costa caro e non posso permettermelo tanto spesso. Molti,
anche fra i miei cari, credono che vivere in America significa guadagnare e
mettere da parte tanti soldi. Non è vero, il pane bisogna sudarselo e, con la vita così cara, c’è poco da arricchirsi. Io, prima di fare questo viaggio ho dovuto pensarci mille
volte, aspettare 8 anni, cercare di racimolare qualcosa con tanto lavoro in più. Ancora adesso mi vengono degli scrupoli. Sto per spendere tutti i risparmi per
rivedere la famiglia. Ma voglio farlo: due anni fa una delle mie sorelle si
ammalò e morì. Io non feci in tempo a vederla per l’ultima volta».
Parliamo di Nocera, Pagani, Cava de’ Tirreni; Conosce Cava? «’Sure’ - risponde, mischiando inglese e italiano, - ci andavo spesso prima di partire».
La signorina Evelina ha ormai la sua vita ordinata e tranquilla a New York. Esce
di casa presto, torna dal lavoro nel pomeriggio, giusto in tempo per fare un po’ di spesa e cenare, cucinando sempre le sue pietanze italiane. Il sabato, giorno
di riposo, si ammazza di fatica in casa per riassettare e rimettere ordine. Ha
le sue amiche, con le quali esce e si concede qualche svago. Le condizioni
economiche le consentono una vita dignitosa, ma nessuna follia. Probabilmente,
in queste condizioni avrebbe potuto anche restare a Nocera, senza sradicarsi
dalle proprie origini, ma la vita, per lei come per tanti altri, è andata in questo modo e non ci sono rimpianti. «Fra qualche anno andrò in pensione - dice. - Questo viaggio mi servirà anche per vedere lì come stanno le cose e decidere se, finito di lavorare, è meglio che torni in Italia o che trascorra la mia vecchiaia a Brooklyn. ‘Sure’, dovrò pensarci!».
Auguri Evelina!