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Cavese


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storia
Per un minuto e mezzo fu la fine del mondo
e Cava rimase con rovine e palazzi pericolanti
23 Novembre 1980, ore 19,34
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Erano la 19,34 di quella sera del 23 Novembre 1980, quando per recarmi a far visita ad amici, imboccavo Via Benincasa alla guida della mia 500. Improvvisamente vien meno l’illuminazione pubblica ed elevo tra me e me una piccola imprecazione di contrarietà. Poi l’incedere della mia automobile viene ostacolato da altre macchine che si son fermate di botto. Apro lo sportello per rendermi conto del perché di quel brusco ingorgo, e sento un trambusto dintorno: vedo tanti giovani che scappano all’impazzata, provenienti certamente dal Cinema Capitol. Gridano e si urtano in cerca di scampo. Capisco allora che si tratta di terremoto, e lascio la mia macchina con lo sportello aperto, i fari ed il motore accesi, e mi giro dintorno in cerca di scampo. Sono intrappolato da ogni parte da palazzi di sei piani di cemento armato. Soltanto a sinistra c’è il palazzetto più piccolo dell’Ufficio Postale, e penso che mi convenga addossarmi a questo nella speranza che, cadendo gli altri tre palazzi, le macerie non mi raggiungano. Mi aggrappo al cancello di ferro dell’entrata di servizio, ed intanto son passati trenta secondi di terremoto sussultorio, e certamente ci sarà la replica. Calcolo se mi convenga correre lungo via Sorrentino verso i giardini a ridosso della ferrovia, ma giudico che il tragitto è abbastanza lungo e correrei il pericolo di scappare da Scilla ed incappare in Cariddi prima di arrivare allo spazio aperto. Decido di rimanere dove sono. Ed ecco, dopo qualche secondo, la replica, stavolta di ondulatorio. La tragedia è più paurosa. Mi sento solo, solo con la mia anima, solo di fronte a Dio. Sento che il cancello al quale sono attaccato con la mano destra, viene violentemente scosso da una forza gigantesca che tenta di svellerlo. Alzo gli occhi in alto, ed alla luce dei fari delle automobili, che son rimasti tutti accesi, vedo che i tre palazzi di sei piani di cemento armato oscillano avanti ed indietro piegandosi verso di me come bramose branchie che tentano di ghermirmi. Penso che per me sia giunta l’ora fatale di lasciare questo mondo, e di intraprendere il grande viaggio dell’aldilà. Se i palazzi non resisteranno farò la fine del topo.
Mi rassegno e sempre guardando in alto le cime dei palazzi, dico tra me e me: «Dio, salvami tu»! Poi resto a guardare impavido di fronte alla morte che oscilla sulle cime di quei tre palazzi che sembrano essere impazziti anche essi come la gente che continua a correre per la strada, in un frastuono da bolgia infernale.
Ma quanto dura questa fine del mondo? E più non penso, attendendo che il destino si compia.
Dopo sessanta secondi di ondulatorio, finalmente tutto finisce come d’incanto, e grazie a Dio i palazzoni hanno resistito. Rimonto in automobile per uscire da via Benincasa. Riesco a sgattaiolare verso la Stazione Ferroviaria e di qui a girare verso Nord lungo via XXV Luglio, per raggiungere i miei amici, la cui abitazione è circondata da molto spazio libero. Come prevedevo li trovo già in automobile in grande apprensione, direi in esagitazione, sul punto di scappare senza sapere essi stessi dove. Dico loro che l’unica cosa saggia è quella di restare in automobile nel punto in cui si trovano, giacché tuttintorno c’è spazio libero. Mi stanno a sentire, e si acquietano un poco.
La gente è tutta fuori di casa e si ammassa sui crocicchi. Le automobili cariche di persone che si preparano a dormire all’addiaccio, incominciano ad allinearsi lungo le strade negli spazi liberi dai fabbricati, e nelle ville comunali, e nello spiazzo della nuova Pretura e del parco Beethoven, nello stadio comunale, nei campi sportivi di S. Pietro e di Pregiato, e dovunque ci sia uno spiazzo che non sia circondato da fabbricati.
Ormai è notte inoltrata. Cerco di convincere gli amici a risalire in casa loro, dove si può stare sicuri, perché è di cemento armato ad un solo piano, e quindi fortunatamente antisismica. Essi non vogliono saperne: passeranno la notte in automobile. Dico loro che se me lo permettono rimarrò soltanto io in casa loro a passare la notte, perché se dovessi passarla fuori, col freddo gelido che fa, sicuramente mi prenderei una bronchite, e tra una bronchite certa ed una nuova scossa di terremoto, convinto come sono che, forte come la prima non potrà più farla, preferisco correre il rischio del terremoto.
Così tutto solo ho passato la prima notte di terremoto a guardare ad occhi aperti il mostro che non dà tregua ed ogni mezzora mi fa scattare, ed una volta anche scavalcare una finestra per uscire sul terrazzo. Non auguro a nessuno di trascorrere una notte da solo come in una cella e come se fosse l’ultima notte del condannato a morte.
I danni subiti dalla città
Al mattino mi metto in giro per la città a vedere come stanno le cose. I negozi rimangono tutti chiusi. La gente sta tutta nelle automobili nelle quali ha passato la notte, e numerosi gruppi stanno a scaldarsi intorno a foconi che hanno acceso servendosi del materiale più disparato ed anche di travi di soffitti caduti. Cerco di valutare i danni ai fabbricati, e mi faccio ad occhio e croce l’idea che l’80, se non il 90 per cento degli stabili sono stati danneggiati: di questi la metà è inagibile, e di questa metà, la metà è temporaneamente inagibile, e l’altra metà è stata abbattuta già dal terremoto od è da abbattere.
La chiesa di S. Francesco è completamente crollata, e per fortuna nel momento fatale non c’era dentro nessuno. E’ crollata un’ala anche dell’attiguo convento delle monache. il Duomo ha avuto il tetto sprofondato, gravi lesioni alle mura perimetrali e la spaccatura della facciata principale. L’orologio, tanto caro e tanto utile ai cavesi, era rimasto fermo esattamente alle 19,34. Per fortuna anche nel Duomo non c’era in quell’ora anima viva, e neppure il parroco, essendo state terminate tutte le funzioni religiose domenicali.
Il Borgo Scacciaventi e tutte le palazzine lungo il Corso Umberto presentano le facciate più o meno intatte, ma dentro sta il marcio, perché le travature in legno sono uscite dai loro buchi ed i soffitti son caduti. Per fortuna nessuna vittima.
In via Francesco Alfieri è crollato del tutto un palazzo e ci sono stati tre morti: la nonna Olmina Matonti in Masullo, ed i nipotini Masullo Alfonso di 3 anni e Giordano Flavio di 8 mesi (in seguito morirà anche il nonno Masullo Carmine di 65 anni portato in ospedale vivo).
In piazza Duomo l’ala destra dell’ultimo piano del palazzo Palumbo è crollata. L’inquilina, Anna Santoriello vedova Russo di anni 93 e sua figlia di anni 63 vengono portate alla Casa di riposo di Villa Rende. I palazzetti laterali, Soligo e De Filippis, hanno avuto il tetto crollato e crollati anche i solai del sottotetto. A Passiano l’antica chiesa ha subito rilevanti danni ed il palazzo Virno è completamente crollato. In egual proporzione che al Borgo anche i fabbricati delle Frazioni han subito danni.
A S. Lucia i fabbricati caduti sono più, e sotto uno di essi è rimasta vittima Ferrara Carmela di anni 44, estratta cadavere. Pare che oltre alle vittime fin qui indicate non ce ne siano altre.
La fortuna ha voluto che il sisma si verificasse di domenica sera quando quasi tutta la gente era fuori casa, e che gli stabili dei cinematografi hanno retto bene.
In Ospedale sono stati ricoverati però oltre una sessantina di feriti e due altri cavesi sono periti fuori Cava.
I fabbricati di nuova costruzione in cemento armato hanno magnificamente resistito, riportando lesioni soltanto alle pareti del piano terreno, del primo, del secondo e del terzo piano, le quali han fatto da cuscinetto tra il terreno ed i piani superiori durante la parte sussultoria del terremoto. Molti quartini della Via Vittorio Veneto e quelli nuovi di Via Mazzini hanno perduto le pareti esterne, perché costruite a mattoni di cotto invece che a tufo: il tufo, più elastico ha resistito alla pressione e si è soltanto incrinato. I passanti per le strade sono pochi, perché soltanto i più ardimentosi hanno lasciato le loro automobili od i loro bivacchi.
Nel palazzo Comunale sono presenti soltanto gli spazzini, i vigili, il Sindaco, qualche assessore e qualche impiegato; ma son tutti quasi intontiti o non sanno da dove incominciare di fronte all’immane catastrofe.
I panificatori, presi dal panico, non hanno panificato. Vado in via Filangieri a vedere se almeno il panificio Milione, che è a conduzione familiare, ha panificato; niente: debbo accontentarmi di due pacchi di biscotti. A sera panificherà il panificio che sta di fronte allo Stadio Comunale in Via Mazzini, e potrò acchiappare due chili di pane croccante. Nel pomeriggio soltanto un paio di salumerie hanno aperto e possiamo comprare qualche cosa di companatico.
Anche le farmacie sono rimaste chiuse.

Tratto da “Cronaca del terremoto del 23 novembre 1980 in Cava de’ Tirreni”, di Domenico Apicella - edizione il Castello 1980

Pubblicato nell’inserto del numero 6 - giugno 2000 di Panorama Tirreno  ( visualizza l’inserto)
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