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Signorini, ricordo di un campione sorridente e gentile
Addio a Gianluca, leader della difesa aquilotta da Benetti a Viciani
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Antonio Giordano
Scandagliare la memoria può essere un esercizio difficile, se doloroso: le immagini si sovrappongono, la tristezza deflagra, i tormenti s’accavallano. Gianluca Signorini è una quercia che si staglia in lontananza, lì, in fondo ai portici, verso il Bar Remo e cammina fiero e silenzioso, sorridente e signorile.
Gianluca Signorini è una sagoma che sovrasta altre sagome, con la chioma lunga al vento ed il piglio del leader ch’era in lui. Gianluca Signorini è l’autunno del 1984, la eco d’un colpo al calciomercato per avviare la ricostruzione d’una Cavese appena retrocessa, gli interrogativi su quel talento che faticava ad emergere in una squadra che non sarebbe mai esplosa. Gianluca Signorini è un distinto ventiquattrenne già uomo, finito in panchina senza sapere un perché, però mai animato da spirito polemico, mai ribelle, solo curioso di capire anch’egli i perché. Gianluca Signorini è il calciatore-modello, l’immagine simbolo della galanteria, la linea di demarcazione tra un calcio artigianale e quello proiettato nel futuro: e stando alla frontiera, una frontiera che lui stesso impersonificava, conosceva entrambi. Il calcio di Signorini era già spregiudicato: tutta zona, difesa in linea, organizzazione e pressing. Però, a quella Cavese che Romeo Benetti avrebbe voluto far rassomigliare alla Roma primavera campione d’Italia, diveniva tutto maledettamente complicato.
Ma Signorini, il fiore all’occhiello della campagna acquisti, l’uomo-mercato strappato a decine di concorrenti, ritrovatosi a bordo campo, non avrebbe mai alzato la voce, mai concesso interviste stizzite, mai abusato della presunta forza che gli offriva quel ruolo di “star” al quale l’aveva consegnato la Cavese, pagandolo fior di milioni alla Ternana. Il giudizio spettava al campo e Signorini si sarebbe ripreso il suo posto, la sua maglia, la sua inattaccata credibilità quando sulla panchina della Cavese arrivò Corrado Viciani: fu una salvezza faticosa, ma fu il decollo di Signorini.
Càpita, al sottoscritto, di incontrare sui campi o nelle città visitate per professione, giocatori che hanno segnato quel periodo aureo della Cavese o, più in generale, giocatori di squadre campane con i quali ho intrattenuto rapporti: non è mai capitato di incontrare Signorini. Che era rimasto però una figura un po’ romantica della memoria di chi scrive. Era diverso, era nato capo, era autorevole, era affidabile. Non sarebbe divenuto l’eroe d’una città come Genova, se non avesse avuto tutte quelle qualità; non avrebbe scosso emozioni oltre le fazioni e aldilà delle bandiere, se non fosse stato capace di trasmettere, a pelle, la sua onestà intellettuale ed il suo senso dello sport. Signorini attraverso Cava rapidamente, un anno e via, verso Parma, verso il grande calcio, verso un destino infame.
E’ un esercizio devastante andare a rovistare nella memoria, e non dà sollievo neppure a chi ha avuto modo di conoscerlo appena, figuratevi un po’ a chi gli è stato al fianco una vita e se lo è visto portare via così in fretta. Però par di vederlo che passeggia con sua moglie sotto i portici, di ritorno dall’allenamento: la macchina parcheggiata dalle parti del Maiorino, un salto al Bar Remo, che all’epoca era di fronte al cinema Metropol e rappresentava il ritrovo dei calciatori e poi a rifugiarsi con la sua famiglia che andava formandosi. Mai un atteggiamento divistico (succede, a volte, sapete, anche in serie C); mai un eccesso. Lui era così, normalmente. Normalmente straordinario.

Panorama Tirreno, dicembre 2002