“Il mio ricordo di Lello Senatore”
Ci sono pagine della propria esistenza che non si
dimenticano mai
Antonio Giordano
Su cosa ci
sintonizziamo, Lello: sui 103.3 megahertz di Radio Metelliana o sul
canale Uhf ma chisseloricorda di Tele Cava? E da dove ricominciamo,
Lello, dalle una e ventisei del 16 maggio, come recitava con perfezione
pari alla tua il telefonino, ricordando l’ora del nostro ultimo
contatto? Da cosa, da dove Lello? E così facendo aiutiamo il
lettore un po’ a scoprirti? «Buona sera e ben sintonizzati
su Radio Metelliana, è Raffaele Senatore che vi parla e vi
saluta»: il giovedì sera, in quegli altrimenti noiosi
giovedì sera, ci hai fatto compagnia rendendo quei
giovedì meno noiosi: le prime radio, pionierismo di provincia,
il primo sport, e dall’ignoto sarebbe sbucata la voce
senz’inflessione d’un uomo che sapeva diventarti amico.
Sport, calcio, però anche politica e poi storia e cultura e
costume d’una città che l’aveva accolto, che
l’avrebbe accompagnato sino al 16 maggio del 2006.
Radio Metelliana, cioé Peppino Muoio,
Antonio Battuello, Antonio Bisogno, Luciano D’Amato, Antonio De
Caro, Antonio Visconti, Pippo Tarallo, Alfonso Amaturo, Pino Foscari;
cioè tu, cioé io che da te venni subito
«adottato». Buona sera e benvenuti su Rtc, su Radio Tele
Cava, si chiamava così Quarta Rete quando Mimmo Sorrentino non
avrebbe dovuto scegliere di piegarsi al rozzo campanilismo rimuovendo
quella sigla che sapeva di targa e quindi di carta
d’identità nei “pericolosi” derby calcistici
dell’epoca: meglio, molto meglio, più sicuro e più
vago Quarta Rete, forse avrebbero risparmiato almeno il furgone. Radio
Metelliana e Quarta Rete, pillole di giornalismo, spremute di saggezze,
“battaglie” informative lanciate sul filo della
provocazione, però sempre professionalmente inattaccabili:
«Le cose vanno fatte per bene».
E Radio Metelliana, a sentirla, aveva suoni
puliti e una dizione degnissima. E Quarta Rete, nel suo piccolo,
s’accomodava nel salotto buono della gente al martedì
senza sferrare gli urlacci della tv spazzatura ma lasciandosi cullare
da quel garbo inglese e quell’ironia fiorentina ch’era
figlio di “sciacqui” nell’Arno. Quei favolosi fine
anni settanta Raffaele Senatore li visse nell’etere, sfornando
idee, offrendo emozioni, catturando simpatie - e, inevitabilmente -
pure qualche antipatia: succede ai più bravi, in apparenza
spocchiosi, semplicemente perfezionisti, talvolta perfetti. Il
gracchiare delle radio e l’avvitamento delle immagini
tivvù hanno raffigurato nell’immaginario collettivo un
uomo che invece era tant’altro: era soprattutto marito, era
innanzitutto padre, è stato amico, cantore d’una
città alla quale s’era legato indissolubilmente dopo
esserci approdato in gioventù, venendo da Amantea.
Radio e tv, a un certo punto, avrebbero smesso
di scandire quell’esistenza briosa, effervescente, vivace, vitale
e, ulteriormente rivitalizzata dalla Direzione della Azienda Soggiorno
e Turismo, dalla corrispondenza della Gazzetta dello Sport. Le macerie,
morali oltreché urbanistiche, del terremoto, sarebbero state
rimosse portando il Giro d’Italia a Cava de’ Tirreni: ce
l’avrebbe fatta, Lello, fidando su Gino Palumbo, il figlio
più celebre e più autorevole di questa città che
sembra avvertire in questi giorni - su di essa – una sorta di
maledizione. E visto che sarebbe stato un successo: due volte il Giro,
a Cava. E poi un fiorir di iniziative, il premio Cavesi nel Mondo, per
dare un senso alle storie umane di gente altrimenti dimenticata; e poi
un calendario culturale e scosse d’adrenalina a getto continuo
lungo i portici e sul corso e sull’Abbazia e lungo i tornanti che
l’avrebbero condotto giù sino alle valli e su per le
frazioni, che l’avrebbero spinto a bracci di ferro («i
calabresi sono duri») e a spallate regolari.
Giocava mediano, da ragazzo, e quando nacque
Mauro, estate ‘78, l’ultimo della cinquina regalatagli da
sua moglie Annamaria, il cucciolo di Enzo, Giuliana, Valeriana,
Emiliana, che noi “colleghi” della radio, soprannominammo
Schuster, raffigurò Lello in tutta la sua tenerezza.
Una vita da fuoriclasse, Lello, se
m’è consentito: fuoriclasse di paese, enfant du pays come
avrebbe detto Adriano De Zan commentando il Giro d’Italia in
sfilata lungo Corso Umberto, tra ali di folla e di portici medievali.
Ore 13.26 del 16 maggio, un’ora stanca per
chi fa il giornalista, la riunione è appena finita, le idee si
accavallano, si temporeggia in attesa del pranzo,
s’avvitano le soluzioni per il pomeriggio: squilla il cellulare,
«sono Raffaele». Saremmo stati un quarto d’ora a
chiacchierare, Lello, il Napoli, la Cavese, i ritmi dei quotidiani, i
capi, i direttori, l’etica, la meritocrazia, i figli tuoi che ti
facevano gioire e t’appagavano perché erano come tu e tua
moglie li avevi desiderati, così come abbiamo sognato io e mia
moglie siamo un giorno i nostri, colti e realizzati; i nipoti che
offrivano nuove e sempre più inedite sensazioni, la salute che
va e viene; e poi come sta mia moglie, cosa fanno i bambini, intanto
divenuti grandi: Paolo è piccolino ancora, tredici anni quasi,
però Andrea, ormai, ne ha quasi quindici, due in meno di quanti
ne avessi io, Lello, quando ti telefonai quella sera a Radio
Metelliana. Ce lo siamo ricordati spesso, come andò: «Sa,
dottore, Gigi Riva ha finito di giocare, io ho un quaderno nel quale
conservo tutto di lui». E tu, curioso: «Vieni qua,
parliamone». Parlammo e nacque un sodalizio mai incrinato: mai.
Non un istante delle nostre vite diverse in cui l’uno avesse
avuto un’unghia di dubbio sull’autenticità affettiva
dell’altro. Prima venivo all’Azienda, in piazza: una
chiacchiera, il caffé, perdiamo dieci minuti ed era sempre
un’ora. E ripensavamo al primo raduno delle radio libere, nel
‘79: Beppe Aratoli di Arezzo, Ugo Manzini e Duccio Casini di
Lucca, Pina Ricatti di Barletta, Rino Tebala, il professor Rino Tebala
di Reggio Calabria. Ero un ragazzino, e m’hai cresciuto pure di
tuo, spiegandomi la vita senza sistemarti sulla cattedra.
Quand’ero ancora un giovanotto e di telefono c’era solo
quello di casa, t’intrattenevi a chiacchierare con mio padre o
con mia madre e li rassicuravi: «E’ un mestiere difficile,
duro, che premia talvolta tardi. Ma ce la farà». Hai fatto
il tifo per me, e lo so vecchio amico mio, perché me lo hanno
detto; e poi lo capivo, perché ogni volta che ho cambiato
giornale, e ne ho cambiati e ne ho dovuti cambiare, m’è
sempre arrivato un tuo telegramma d’auguri ch’era carico
d’affetto, di felicità. Ricordo pure qualche brontolio,
direttò, e amicali rimbrotti; e pensa, ricordo pure la prima
contestazione lessico-grammaticale che conservo nella memoria. E poi
quella ramanzina sussurrata a mo’ di sfottò: «Ho
ancora il libro di mamma Lucia per te, sta lì che aspetta di
prendere il caffè con te». Ci sono pagine della propria
esistenza che non si riaprono più, che non si dimenticano mai.
Un abbraccio, Lello.
Panorama Tirreno, giugno 2006