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storia
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Quando a Cava c’era il teatro
Tante compagnie si alternarono fino al
1860, poi per quindici anni la città fu privata degli
spettacoli perché il nuovo consiglio cittadino,
all’indomani dell’Unità d’Italia,
aveva bisogno di maggior spazio. E si pensò di costruire
il “Verdi”…
Valerio Canonico
Spettacoli teatrali (1833 - 1860)
Il proposito di dedicare una noterella
storica al Teatro Municipale G. Verdi ha indirizzato le mie
ricerche di archivio al passato teatrale di questa
città.
E' stata una piacevole scorribanda, non
priva di scoperte e di sorprese, con un materiale ghiotto ed
interessante.
Da esso apprendiamo essere stata intensa
la passione dei nostri cittadini per l'arte drammatica: indice
questa di maturità e di evoluto gusto artistico. Farne
argomento della noterella odierna, rimandando ad un prossimo
numero quella sul Teatro Verdi, risponde all'indirizzo di
questo giornale che ha come programma la divulgazione del
costume e degli spiriti del nostro passato.
Essendoci stati qui in ogni tempo
spettacoli teatrali, per ovvie ragioni, non comincerò ab
ovo ma da quando, nel 1833, Cava ebbe un teatro stabile e
funzionale.
Fu in quell'anno che il primo eletto
Matteo Ioele, d'accordo col decurionato, diede l'incarico a
Filippo d'Ursi di ricostruire il teatro di fortuna che a quando
a quando veniva allestito nella sala grande delle udienze della
Casa Comunale. I D'Ursi sono stati quasi tutti notai, invece
l'omonimo del nostro direttore, ci viene, presentato nella
qualità di perito. Di lui ci sono giunti gli originali
di due progetti: col primo fu costruito in legno e in muratura
il palcoscenico con l'arco di 14 palmi e la larghezza di 15
palmi; coll'altro nel 1834 furono portati a termine i camerini
per gli attori e tutti gli annessi e connessi per diversi
spettacoli.
I lavori furono eseguiti ad economia e
sotto la sorveglianza dei deputati alle opere pubbliche D.
Fulgenzio Orilia e il Marchese Andrea Genoino, che poi
diverrà Sindaco di Cava per due trienni.
La spesa di 118 ducati fu approvata
regolarmente dall'intendente del Principato Citra.
Scene ricchissime
Questo teatro costò al
decurionato fior di ducati perché diventasse sufficiente
ad ogni genere di spettacolo, come lo provano gli elenchi
dell'abbondante materiale preso in consegna dai capocomici e le
molte fatture che il diligente archivista ha conservate per la
nostra curiosità. Ricchissima era la dotazione delle
scene: ben 24 quinte nei primi anni erano a disposizione dei
comici: molte altre furono preparate a mano a mano che venivano
richieste. Né si badò a spese quando nel 1840
furono decorati i muri e il cielo della sala e si dotò
il palcoscenico di un nuovo sipario. Lo scenografo e pittore
Luigi Palliotta diede forme e colori alle allegorie che la
barocca fantasia dell'ingegnere Luca Catone commise con questo
ordinativo. Il sipario esprimerà un gran quadro
esprimendo la gran veduta di Cava con tempio laterale, al di
sotto del tempio statue del genio borbonico che accoglie
l'amplesso della città di Cava sostenuta da tre punti
indicando le tre Grazie e coroneranno il tempio i simboli della
provincia.
Inaugurò il Teatro, il 14
settembre 1834, la compagnia Tozzi di Pisa, la quale diede
trenta recite. Alla fine di queste il Tozzi scrisse una
letterina al decurionato per ottenere una gratificazione che fu
concessa, generosa e pronta e ammontò a cento ducati.
Petizioni come questa concludevano tutte
le tournées e dobbiamo ad esse la possibilità di
fare cenno alle varie compagnie che passarono per il nostro
piccolo Teatro. Molte sono untuose e servili: erano compilate
da guitti che non avendo accontentato la cittadinanza andavano
via più affamati di come vi erano giunti, in altre
invece il capocomico chiedeva con decorosa dignità e
quasi in diritto, in nome della musa Talia e qualche volta di
Melpomene delle quali si considerava sacerdote.
L’elenco degli abbonati
Fra le compagnie che raccolsero generali
e spesso entusiastici consensi ricordiamo quella di Pietro
Torelli che rimase fra noi tre mesi, quella di Labriola con
trenta recite, di Giulio Grignani e di Carlo Camisana. Chi ebbe
più fortuna fu il maestro Andrea Pini che tenne cartello
con la sua compagnia lirica negli anni 1845-46 e 47. Un foglio
fatto girare fra i gentiluomini cavesi per la raccolta degli
abbonamenti diede esito insperato: ben 21 furono i firmatari
non solo per sé ma anche per i familiari.
Da questo foglio che ci è
pervenuto, perché su di esso fu scritta la domanda di
rito per l'uso del Teatro, è compilato l'elenco che qui
pubblichiamo, non per sfoggio di documentazione, ma per un
omaggio a quei cavesi che con generosità ed intelligenza
resero possibile tanta dovizia di attività teatrale.
Ecco i nomi degli abbonati: Marchese
Genoino, Felice De Pisapia, Nicola Ioele, Domenico Salsano,
Antonio Galise, Giuseppe Vitagliano, Fran. Sa. Del Forno,
Bartolomeo Pagano, Giacinto Gagliardi, Gennaro Rossi, Pietro
Formosa, Giuseppe Catone, Gaetano Lambiase, Pietro De Marinis,
Domenico Luciano, Angelo Avigliano, Gaetano Campanile, Domenico
Della Corte, Pasquale Mascolo, Alfonso di Mauro, Saverio
Pisapia.
L'avere i firmatari acquistato due o tre
biglietti di abbonamento, ci fa arguire che anche le signore
accompagnavano i mariti agli spettacoli.
Un'altra testimonianza della frequenza
del gentil sesso la deriviamo dalle innovazioni che a
più riprese furono arrecate alla sala per renderla
accogliente alle signore per le quali furono confezionate
poltrone, cuscini e perfino due divani. Dovevano essere queste
gentildonne poco schifiltose e molto amanti degli spettacoli se
tolleravano per due o tre ore l'aria viziata da 24 maleodoranti
lampioni ad olio distribuiti tra il proscenio e la sala!
Verso la chiusura
Si è parlato finora di spettatori
gentiluomini e gentildonne. Sorge la domanda: il popolo
partecipava a questi spettacoli? Certamente sì: non
nelle proporzioni odierne, ma con pieno diritto. L'esistenza
nella sala degli scanni e la capacità di questa lo
confermano.
Le ultime recite ebbero luogo
nell'aprile del 1860 con la compagnia Covitti e Lanfranco. Poi
per quindici anni la città fu privata degli spettacoli
teatrali, non perché le camicie rosse avessero distrutto
la gioia del vivere, ma per la demolizione del Teatro decisa
dal nuovo Consiglio Comunale nel 1861. In quegli anni di
fervore di opere e di propositi bisognò dare più
ampio respiro alla Casa Comunale che fu rinnovata
affinché rispondesse ai nuovi bisogni.
Ma mentre i picconi dell'architetto
Gelanzé di Napoli, che diresse i lavori, trasformavano
il Teatro nella sala delle sedute e in ufficio, nelle menti e
nei cuori dei consiglieri era già fissato il proposito
di costruirne uno più bello e più grande, al
quale misero mano appena furono risolti tre assillanti problemi:
la scuola, le strade, le acque.
Dal «Pungolo»: 20 giugno
1964
Con queste parole il Primo Eletto
avviò i lavori per la costruzione del
‘Municipale’
Era il mese di ottobre del 1860, quando
fu progettato di edificare una sala per 620 spettatori, grande
quasi quanto il San Ferdinando di Napoli e degno della
città più popolosa e prospera della Provincia.
Poi le cose andarono diversamente
Il Teatro G. Verdi - Nascita
Quando, nell'aprile del 1860, i
Decurioni, con disappunto delle loro mogli e della
cittadinanza, ordinarono la demolizione del vecchio teatro,
ospitato fin dal 1833 nella Casa Comunale, avevano già
in pectore il proposito di costruirne un altro funzionale e
degno della città più popolosa e prospera della
Provincia.
Infatti, il 20 ottobre, un mese dopo il
Plebiscito, il Primo Eletto ne comunicava la decisione al
Governatore della Provincia che denominavasi ancora Principato
Citeriore con questa poco sintattica lettera:
In un paese civilizzato (sic!) come
questo, manca un teatro tanto per allettamento ai propri
abitanti che ai forestieri che vi concorrono, credetti mio
divisamento di doversi edificare all'uopo, ne commetteva
l'incarico all'Ing. Di Lorenzo Gelanzè ecc. ecc.
Ampio e funzionale
Fra compilazione del progetto,
pentimenti, correzioni e remore burocratiche, trascorsero vari
mesi finché i lavori furono concessi in appalto al Sig
Andrea Maddaloni di Napoli con un contratto firmato il 28
luglio 1862 presso il Notaio Giovanni Della Monica.
Fra i vari obblighi, nei quali si
articolava il documento, degni di rilievo per la cronaca questi:
«I lavori dovranno essere eseguiti
in tre anni, con pagamenti annuali di Ducati 1.500, il resto
dell'onere ammontante a Ducati 10.822,60, pari a Lire
45.994,90, alla consegna ».
«Il deposito di Ducati 500
sarà ritenuto a titolo di multa, qualora il lavoro non
sarà eseguito nel modo e nel termine stabilito ».
Il Gelanzè, autore del progetto,
era di casa nella nostra Città. A lui, infatti, aveva
fatto capo il Comune nella sistemazione della Casa Comunale e
nella trasformazione del Monastero di S. Giovanni.
La funzionalità e l'ampiezza del
nuovo teatro fanno onore agli amministratori che ne erano stati
gli ispiratori, per la mente aperta all'evoluzione sociale e
demografica della nostra Città. Lo provano alcuni dati
sicuri ricavati dal progetto e dalle controversie che vennero
dopo.
La sala della platea aveva un diametro
di metri 10, un metro meno di quello del Fiorentini, e 50 cm.
del San Ferdinando di Napoli.
Poteva contenere 620 spettatori seduti,
così distribuiti: 280 nella platea - 130 nei 36 palchi,
200 nella galleria e 10 in due palchi di platea.
I lavori, nei primi due anni,
procedettero con lena e con soddisfazione dei tre consiglieri
incaricati alla sorveglianza: Gaspare Manco, Simone Campanile e
Pasquale Palumbo.
Soddisfatti e anche compiaciuti si
mostravano i Cavesi, che spesso si attardavano nello spiazzo
incolto, alle spalle del Duomo, ad ammirare il fabbricato
imponente per quel tempo, il quale, a mano a mano che si
rizzavano i muri, dilatava le speranze nei cuori. Le nostre
Nonne e Bisnonne pregustavano più raffinate e mordenti
emozioni con l'arrivo di compagnie drammatiche rinomate, i
mariti, la gioia del bel canto e i vitaiuoli con la fantasia
popolavano il capace palcoscenico di compiacenti e graziose
coriste o ballerine.
In questo cielo sereno e carico di
lusinghe, scoppiò improvvisamente il fulmine foriero di
una tempesta dei cui effetti negativi risentì la vita
mondana di questa città.
Vertenza con l’impresa
Un mattino, quando mancava solo la
copertura del palcoscenico, non comparvero gli operai al lavoro
e lo stesso avvenne nei giorni seguenti. Che cosa era successo?
L'incauto appaltatore che aveva accettato la costruzione del
teatro per l'ammontare di Ducati 10.822, accortosi che i conti
non tornavano e che già aveva speso il doppio, aveva
chiesto una misura di taglio.
Il Comune, forte del contratto, non solo
rispose: perfice et repete, cioè: prima esegui i lavori,
poi si penserà al taglio, ma incamerò il deposito
di 500 Ducati per inadempienza.
Hinc ira et lites - Queste ebbero il
loro epilogo nelle aule del Tribunale di Salerno e poi della
Corte d'Appello di Napoli.
Ma se a Salerno la sentenza fu a noi
favorevole, contraria fu quella della Corte di Appello che
condannò la nostra Città a tutte le spese di
giudizio e alla misura di taglio chiesta dal Maddaloni.
Eppure noi avevamo come patrocinatori
tre eminenti avvocati: Gennaro Vitagliano, Francesco Orilia e
Antonio Orilia, noto a Napoli per sapienza giuridica quanto il
figlio Marcello lo fu per raffinata mondanità.
Per spiegare questa disparità di
giudizi ho letto con attenzione le duecento pagine del
fascicolo che contiene le varie fasi della controversia e dei
processi, ed ho dovuto constatare che, se dal lato giuridico i
cavesi avevano ragione, motivi umani e morali militavano a
favore dell'appaltatore.
Queste considerazioni sopravvalutando,
la Corte di Appello emise il pesante responso ai danni del
nostro Comune.
Lo stesso Gelanzè, incaricato dai
Giudici a fissare la misura di taglio, riconobbe che erano
avvenute modifiche al progetto: quali l'allargamento della
platea, l'approfondimento della fondazione, la giunta alla
fabbrica della casa per gli artisti; per ciò portava la
spesa fissata di Ducati 10.822 a Ducati 16.715.
Questa cifra fu accettata con un atto
pubblico firmato dal Sindaco Trara, dal Maddaloni e dal
Segretario Ioele il 26 maggio del 1867.
La emorragia di danaro circa 100.000
lire, scalfì senza irretirle le casse del Comune e non
affievolì il fervore dei nostri Amministratori, inteso a
trasformare Cava in una Città moderna, anche senza
teatro.
Tuttavia, nella cittadinanza scese un
velo di amarezza, che degenerò in rancore verso tutto
ciò che avesse rapporto col teatro e quei cavesi che nel
passato avevano trovato nelle manifestazioni sceniche il
supremo godimento e vivo interesse, se ne tennero lontano per
ben quindici anni senza reagire.
15 anni di abbandono
Ci furono, è vero, delle
sporadiche proteste, ma venivano dai giovani che, incapaci di
vivere il dramma dei loro genitori, male si adattavano
all'astinenza.
A questi provvide un tale Alfonso Della
Corte, che costruì una baracca per eventuali spettacoli,
che dovette ospitare qualche compagnia di guitti girovaghi o
canterine da strapazzo.
In questi anni il fabbricato,
abbandonato alla ingiuria degli uomini e delle intemperie,
divenne spettrale come lo scheletro di un animale
antidiluviano, che adugiava di giorno la bella, ampia e ariosa
villa comunale e di notte era motivo di angoscia. A maggiore
vilipendio fu fittato come deposito di legname a R. Avagliano e
due vani furono ceduti a venditori di frutta: Matteo Virno e
Antonio Alfieri.
Tre architetti: Leopoldo Vaccaro, Orazio
Dentice e Pietro Pulli profferirono la loro opera per il
riordinamento e la ricostruzione del teatro, ma i loro progetti
non furono presi in considerazione.
Più fortunato fu l'Architetto
Fausto Niccolini di Napoli, cui nel 1874 il Sind. Marchese
Atenolfi non solo affidò l'incarico del progetto, ma gli
concesse l'onore di partecipare all'adunanza del Consiglio
Comunale del 27 maggio 1875 quando questi fu chiamato a
discutere i due progetti presentati.
La cronaca di questa seduta, che fu
aspra e polemica, inizierà la seconda puntata.
Dal «Pungolo»: 5 marzo 1966
Per le ‘manie di grandezza’
dei cavesi il “Municipale” fu pronto solo nel 1878
Era un vero gioiello di perfezione e di
arte in un edificio di perfetta armonia e la sala decorata con
toni così tenui e delicati da farla somigliare al
Trianon in miniatura
Il Teatro G. Verdi - Grandezza
Fausto Niccolini era figlio
dell'architetto Antonio, che ricostruì il teatro S.
Carlo di Napoli, distrutto da un incendio nel 1816, e
creò le delizie della Villa Floridiana.
Se il Nostro non godette la fama del
padre, era, al tempo della nostra cronaca, il più
quotato architetto di Napoli.
Con questa referenza il Marchese
Atenolfi, nella preannunziata seduta del 27 maggio 1875, gli
diede la parola perché esponesse i progetti per il
riordinamento e la ricostruzione del teatro comunale. I
progetti erano due, contrassegnati con le lettere A e B.
Dai dati raccolti nella relazione
ufficiale, risulta che il primo si articolava in queste
innovazioni: ricostruire il teatro con dimensioni raccorciate
di un terzo, ampliare il vestibolo dando maggiore ampiezza alla
sala superiore da destinarsi a foyer, capacità 450
spettatori. Il progetto B era più complesso e non
difettava di fantasia. L'intero teatro doveva occupare lo
spazio destinato alla scena, allora non ancora coperto,
lasciando libera l'area coperta per adattarla a una casina di
due piani.
Scambio di battute fra Atenolfi e Trara
Genoino
Ingresso al teatro dal lato orientale,
palcoscenico apribile sulla villa per gli spettacoli estivi
all'aperto. Capacità 360 spettatori.
Ad un consigliere, che segnalava la
pochezza dei posti, l'architetto fece osservare: a Napoli gli
11 teatri non possono contenere più di 9500 spettatori,
cioè l'1 e 1/2 per cento della popolazione: 350 posti
sono, perciò sufficienti per Cava che conta poco
più di 20.000 abitanti.
Considerazione, questa, inspiegabile di
un uomo dotato d'ingegno e di fantasia, il quale non teneva
conto del progresso di una città già allora in
pieno sviluppo.
Durante il dibattito ci fu uno scontro
vivace fra i due più importanti protagonisti della vita
cavese nei primi 40 anni dell'Unità Nazionale: il
Sindaco Pasquale Atenolfi e il Consigliere Giuseppe Trara
Genoino. Solidali nella cospirazione e nella felice
preparazione del plebiscito, li divisero non dissensi politici,
ma una diversa concezione e metodo nell'amministrare la cosa
pubblica, prudente e oculato il primo, audace e, spesso,
spericolato l'altro.
Trara, dopo aver pateticamente lamentato
l'abitudine a disfare quanto era stato creato durante
l'amministrazione da lui presieduta, si disse contrario ai due
progetti, come non rispondenti ai bisogni del paese. Quanto
alla costruzione della casina temeva che si offendesse la
maggior parte dei Cavesi ai quali era inibito l'accesso.
His rebus stantibus, proponeva che si
costruisse il teatro secondo il progetto Gelanzè; che,
se le esigenze nuove, sorte per la istituzione del Ginnasio e
della Scuola Tecnica, non lo permettevano, che almeno si desse
l'incarico al Niccolini di redigere un nuovo progetto
più aderente ai bisogni della città.
Al Trara e ad altri dissidenti rispose
l'Atenolfi. Il Marchese non era un forbito oratore, ma parlava
alla buona e con una franchezza, spesso venata da felice
umorismo.
Propose l'accettazione del progetto B; e
per quel che riguardava gli scrupoli del Trara, lo assicurava
che la casina non avrebbe offeso il popolo, ma avrebbe dato una
nuova attrattiva alla città e un non indifferente
cespite. Evidentemente egli pensava ad una futura sede del
Circolo Sociale, che proprio in quell'anno iniziava la sua
prestigiosa esistenza. Rifece la storia del teatro confessando
essere stata colpa di tutti l'averlo varato con proporzioni e
spese superiori alle proprie possibilità.
Erano quelli tempi di euforia, sono sue
parole, nei quali la mania di grandezza prese un po' tutti,
procurando, con questo benedetto teatro a noi triboli e alle
casse del Comune inutili dispendi.
Finiamola con questa mania di grandezza,
smettiamola con la velleità del passo più lungo
della gamba, che ci ha resi ridicoli e oggetto di sberleffi.
Questo amaro sfogo ha bisogno di una
chiosa. Ai Salernitani, che, beati loro, avevano fatto le cose
con calma e prudenza, e nel 1872 col Rigoletto avevano
inaugurato il loro bello e grande teatro, non parve vero,
vedendoci nelle peste, ritornare nella vecchia solfa. Sempre
gli stessi, questi mercanti arricchiti, andavano ripetendo, con
le loro manie di grandezza; bene meritate sono le loro
disavventure!
Quella mattina, forse per la prima
volta, furono inascoltate le parole più eloquenti del
solito del Marchese dai consiglieri, i quali approvarono
l'ordine del giorno di Trara incaricando l'architetto a
presentare, entrò tre mesi, un nuovo progetto più
aderente ai desiderata del Consiglio. Questo fu pronto il 26
ottobre con un preventivo di L. 52.956.
Grosso modo era una variazione del
progetto A, eppure fu approvato ad unanimità. E' ovvio
che gravi motivi piegarono i riottosi consiglieri; principale
la pressione della pubblica opinione e le esigenze della
villeggiatura già allora fiorente.
La decisione fu salutata con gioia dalla
cittadinanza e con sollievo dagli amministratori, come lo prova
la larga pubblicità che si diede al bando.
Infatti, sulla Gazzetta Ufficiale del
1° Gennaio 1876 e poi sul « Pungolo » di Napoli
e sul «Corriere di Salerno», fu pubblicato il
seguente avviso: «Si rende noto al pubblico che la
mattina del 26 febbraio, in Cava dei Tirreni, avrà luogo
l'esperimento per l'incanto per l'appalto delle opere e
forniture per il riordinamento e il completamento del teatro
municipale, per l'ammontare di L. 51.488.
Nel 1901 fu intitolato a Giuseppe Verdi
I lavori furono affidati al pittore e
costruttore Ermenegildo Caputo con contratto di appalto firmato
dinanzi al nuovo Sindaco Trara e al Notaio Della Monica.
Ma, poiché, non solo libelli
habent fata, ma anche tutte le cose di questo mondo, un nuovo
infortunio fu causa di ansie e di inquietudine. Dopo tre mesi
dall'inizio dei lavori, il costruttore, per motivi superiori
alla sua volontà, si dovette rivolgere ai parenti
Fortunato D'Agostino e figli perché continuassero la
fabbrica.
Ci fu un po' di ristagno, poi le parti
si accordarono, e il 17 gennaio 1877, presso lo studio dello
stesso Notaio, fu redatto il nuovo appalto.
Questa volta, però, cademmo, come
diceva Agnese, in piedi. Ci eravamo imbattuti in una impresa
coscienziosa e di provate capacità tecniche.
Infatti, un anno e mezzo dopo, il 2
ottobre 1878, ci consegnarono l'edificio del teatro: un vero
gioiello di perfezione e di arte.
Dei tre D'Agostino, chi vi impresse
l'orma del suo estro, fu l'Ing. Gaetano. Il quale, essendo
anche un finissimo pittore, diede perfetta armonia all'edificio
e la sala decorò con toni così tenui e delicati
da farla somigliare al Trianon in miniatura.
Alla decorazione concorse il pittore
Ermenegildo Caputo, primo assuntore dei lavori, la cui
genialità è affermata anche da un morbido
pastello, che è in mio possesso, col ritratto del nonno
del quale il Caputo fu ospite durante i lavori.
Dipinti da Gaetano D'Agostino furono
anche: il telone, il soffitto con l'apoteosi delle arti, e,
sull'arcoscenio, lo stemma del Comune sormontato da una corona
turrita sorretta ai lati da due figure allegoriche.
Quale rinomanza acquistasse subito il
nostro teatro lo testimonia una lettera dell'arch. Pulli di
Napoli, che prega la Giunta di Cava di mostrare il teatro ad
una commissione inviata dal Comune di Lecce per costruirne uno
eguale.
La denominazione di Teatro Municipale
che splendette sul frontone nel giorno dell'inaugurazione,
avvenuta nel 1879, fu mutata in Teatro Verdi alla morte del
grande musicista, nel 1901.
Primo sopraintendente il Consigliere D.
Raffaele Ferrari, uno dei fondatori e primo Presidente del
Circolo Sociale, già fin d'allora Deus ex machina, della
vita mondana cavese.
Vana fu la proposta del Cons. Barone
Vitale perché venisse dotato il teatro di una cospicua
somma. Ragionava così: il teatro di Salerno, per
mancanza di mezzi, è quasi sempre chiuso; evitiamo che
lo stesso avvenga a Cava, dopo che si è tribolato e
speso tanto.
Il pessimismo del Barone era infondato,
come proverò nella successiva puntata.
Dal «Pungolo»: 2 aprile 1966
Inesorabile decadenza del
“Verdi” nel primo dopoguerra
Rischiò di diventare bivacco
degli squadristi e finì come sala cinematografica.
Saggio e logico sarebbe stato serbare la sala per conferenze,
concerti e per compagnie filodrammatiche, che ebbero da noi
sempre vita rigogliosa. Purtroppo, la logica e la saggezza non
sempre assistono i pubblici consessi…
Il Teatro G. Verdi - Decadenza
Non è superfluo, specialmente per
i lettori giovani, conoscere alcuni elementi funzionali del
Teatro Verdi.
Palcoscenico lungo m. 16 e largo m.
16,80, con pavimento di legno fornito di perfette attrezzature
per la manovra della scena. Ai lati quattro camerini per gli
attori.
La platea lungh. m. 10,50 e largh. m.
12,50, aveva sette file di sedie e due di poltrone, con due
porte di uscita.
Dal secondo ripiano del vestibolo si
saliva, mediante due scale di marmo, al piano dei 13 palchi.
Una scala a chiocciola conduceva al loggione capace di 100
posti a sedere. Nel proscenio: 6 palchi: 3 per ciascun lato.
Pochini i posti a sedere, ma sufficienti per i bisogni della
nostra città e validi per costituirne una delle
principali attrattive che resero Cava la più brillante e
frequentata stazione climatica del Napoletano.
In quegli anni 1879- 1915, che ci
appaiono quasi favolosi, le fortune del nostro Teatro furono
così felici da pareggiare, in dimensioni, le fortunose
vicende che ne accompagnarono la gestazione e la nascita.
Cuore pulsante della città
Giacché il « Verdi »
non fu solo il tempio di Talia, di Euterpe, e qualche volta di
Melpomene, ma anche il cuore pulsante della Città, dove
i Cavesi si raccoglievano per commemorare un illustre scomparso
o per festeggiare lieti avvenimenti e cittadini, come quando il
Circolo Dio e Patria, il 12 febbraio 1912, con una festa di
beneficenza, ricevette come socio onorario il Ten. Errico Papa,
ferito a Bengasi.
La mia cronaca cessa di essere completa
e particolareggiata, come dal 1861 al 1879, per mancanza dei
documenti contenuti in vari fascicoli, introvabili, per ora, in
quel caravanserraglio, nel quale due imprevidenti traslochi
hanno trasformato l'Archivio Municipale.
Tuttavia, le decisioni della Giunta, che
a volta a volta concedeva le licenze, mi offrono la
testimonianza per affermare che il a Verdi » aprì
i battenti nel 1879 con una carrellata di 60 recite, che la
Compagnia di Varietà, di Cesare Spelta, diede nei mesi
di ottobre, novembre e dicembre. Dalla stessa fonte si apprende
che il Teatro, ogni anno, era aperto non meno di 150 volte. E
non solo per rappresentazioni sceniche, ma anche per
manifestazioni culturali, sociali e politiche.
Tra le conferenze, degne di rilievo,
ricordo quelle di Enrico De Marinis su Emilio Zola, 4 gennaio
1903, dell'on.le Verazzani sul socialismo 26 dicembre l903, del
prof. Battelli sul viaggio intorno al mondo - maggio 1912 e un
interessante ciclo, promosso dalla Dante Alighieri, del quale
furono oratori Ettore De Bonis, Amedeo Palumbo, Alfonso Molina,
Eugenio Moretti e la Rotonda.
Ma due fascicoli, per fortuna
rintracciati, ci danno una nozione capillare della intensa vita
del «Verdi ».
Scelgo 5 mesi dell'anno 1895 et ab uno
disce omnes.
Marzo - La Compagnia dialettale Gaioni
dà 5 rappresentazioni: Mettiteve e fa ll'ammore cu
mmè. 'A nutriccia. Tre pecore viziose. Prestami 'a
mugliera, S. Lucia.
Altre cinque, la Compagnia drammatica
Duse: I disonesti - L'erede Casa di Bambole, Battaglia di
farfalle e Casa Paterna di Sudermann.
Aprile: Sono esibiti: Spassateve dopo
muorte, Le disgrazie di Paolo Carola e lo spettacolo di un
illusionista.
Maggio. La Compagnia di Anita D'Agostino
dà: Boccaccio, Mascotte, Madame Angott, Orfeo
all'inferno.
Giugno: prof. Marenco con 3 spettacoli
di canto - scherma - musica.
Agosto - Compagnia Pantalena: Ritorno
dalla Cina, A scaricabarile, 'A bomboniera, Vavone.
In settembre il « Verdi »
diveniva tabù per la Compagnia Filodrammatica formata da
Cavesi e Villeggianti, diretta per qualche anno dal marchese
Carlo Genoino e, in seguito, dal conte Vittorio Capasso.
L'introito alimentava la cassa istituita per la cucina
economica che funzionava d'inverno.
I prezzi degli spettacoli, dati dalle
Compagnie di passaggio, calmierati dalla Giunta, erano i
seguenti: palchi da 8 a 10 lire - Poltrone lire 2 - Distinti L.
1,45 - Galleria (posti in piedi nella sala) L. 0,10 - Loggione
L. 0,30
Qualche ritocco di maggiorazione veniva
dato negli spettacoli di opere liriche.
Il Comune concedeva, oltre la luce,
anche un sussidio di L. 50 per sera, aumentabili secondo la
qualità degli attori e delle opere.
Primi segni di degrado
I primi segni della decadenza si ebbero
nel 1912 quando fu concessa ai fratelli Ferdinando ed Errico
Salsano la facoltà di proiettare due films celebri - Quo
Vadis? e gli Ultimi giorni di Pompei.
Invano gridò alla profanazione D.
Cesare Orilia, uno degli ultimi consiglieri della vecchia
guardia. Non fu ascoltato dagli Homines Novi del Consiglio, che
non avevano vissuto il dramma del nostro teatro.
Dopo venne la stasi degli anni di
guerra.
Nel 1920 le luci della ribalta si
riaccesero con Mascotte - Le Campane di Corneville - Madame
Angot - Gran Via - Boccaccio. Ne fu impresario D. Vincenzo
Coppola. Anche ad altri va data la benemerenza per avere, per
vari anni, tenuto ad un livello dignitoso il Verdi: De Vivo,
1921, Montella 1922 - Emilio Di Mauro 1923, Luigi Scermino,
Volpe, Guariglia ed altri.
Poi le cose andarono a rotta di collo:
al «Verdi» per i vari anni toccò la sorte
dello stivale di Giuseppe Giusti, e per poco non divenne
bivacco degli squadristi, quando fu concesso al Fascio locale
per esercitazioni. Ultima degradazione; il freddo lenzuolo del
cinema muto al posto del pittoresco sipario.
Trasformato, anche con modifiche di
struttura, in sala cinematografica, e dato in affitto col
vilissimo canone di L. 10 per sera, il «Verdi»
vivacchiò alcuni anni finché ne fu decisa la
morte.
Una morte senza trasfigurazione.
L'insania degli Amministratori non
può nemmeno spiegarsi con motivi di economia, essendo
costata la rabberciatura e il lato orientale costruito l'anno
scorso, molto più di quanto sarebbe occorso per una
nuova casa del Comune, funzionale e aderente ai bisogni nuovi
del paese.
Saggio e logico sarebbe stato serbare il
«Verdi» per conferenze, concerti e per compagnie
filodrammatiche, che ebbero da noi sempre vita rigogliosa;
fittare la sala che è al di sopra del vestibolo per le
spese di manutenzione.
Purtroppo, la logica e la saggezza non
sempre assistono i pubblici consessi di questo mondo; e questa
considerazione ci fa più indulgenti verso gli
affossatori.
Dal «Pungolo»: 23 aprile
1966
Fine
Valerio Canonico - «Noterelle
Cavesi» - 1967 Cava de’ Tirreni
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