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attualità
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Un soldato cavese racconta la sua esperienza in Ungheria
Missioni militari: “Di pace sì, ma ti considerano un invasore”
“Eravamo tutti del Sud. E per l’uranio impoverito faccio controlli ogni sei mesi”
I giornali spesso presentano servizi sulle cosiddette missioni umanitarie
condotte dai nostri soldati. I lettori sovente manifestano approvazione o
disapprovazione, condivisione dell’iniziativa militare oppure una palese opposizione. La maggior parte però ne parla con relativo distacco pur mostrando una sincera considerazione per i
soldati coinvolti. Il distacco nasce dall’idea generalizzata dei soldati, pensati come individui indossanti una divisa e
non come singoli uomini, o ancor più, come giovani, che in alcuni casi hanno scelto di percorrere questa strada
unicamente perché non vi è un’alternativa lavorativa. Sono molti anche i ragazzi cavesi che hanno operato questa scelta, di aderire
alla vita militare, di arruolarsi volontari pur di non consumare i propri anni
nella disoccupazione.
Mentre l’afa estiva induceva i più a cercare refrigerio nelle acque di Vietri o Cetara, abbiamo incontrato Massimo
(nome convenzionale) che ci ha parlato della sua esperienza.
Massimo oggi ha 27 anni. A 17, in piena crisi adolescenziale, decide di
abbandonare gli studi e si arruola volontario per l’Esercito. Viene destinato ad Ascoli Piceno dove per tre mesi segue il corso di
addestramento ottenendo i gradi di caporale maggiore e la qualifica di
conduttore. Ciò gli consente di entrare in qualità di autista nello scaglione destinato a compiere una delle missioni militari
umanitarie più discusse negli ultimi anni, la KFOR (Kosovo Force).
Hai richiesto tu di partecipare ad una missione?
- No. E’ stata determinante la qualifica acquisita di conduttore, nel mio caso
specifico. Però devo ammettere che sono arrivate numerose telefonate proprio per favorire la
partenza di alcuni: è molto ambita la destinazione all’estero.
Tre mesi di Car però sono sufficienti per una preparazione adeguata a ritmi ed imprevisti di una missione militare?
- Di fatto prima di partire per il campo segue un ulteriore periodo di
addestramento. Noi siamo stati in Ungheria, presso campi Nato, dove si
organizzano simulazioni di guerra per 24 giorni. Non è infatti sufficiente manifestare una volontà di partecipazione. Necessita un’adeguata preparazione che non li renda sprovveduti di fronte ad eventualità inaspettate.
Ma allora non si tratta di missioni umanitarie?
- Certamente! Noi abbiamo assistito i civili durante il loro esodo, dal Kosovo
in Albania, offrendo assistenza e cure; abbiamo svolto un vero e proprio
servizio civile provvedendo alla ricostruzione, in alcuni casi costruzione, di
strade, ponti, stazioni... Però ciò non toglie che di notte puoi essere attaccato dai locali che ti considerano
comunque un invasore. E l’aspetto più drammatico è che, se attaccato con le armi, non ti puoi difendere nello stesso modo proprio
perché sei in missione umanitaria! Abbiamo fatto decisamente del bene! Abbiamo portato
la vita laddove non esistevano neppure strade...
Perché non hai continuato la ferma?
- Semplice! Perché resti comunque un numero: da questo punto di vista la vita militare non mi è piaciuta.
Cosa mi dici dell’uranio impoverito?
- Vado regolarmente a fare un controllo ogni sei mesi.
Hai chiesto tu di verificare le tue condizioni di salute?
- Sono stato chiamato a sottopormi al primo controllo con una cartolina, questo
dopo che è scoppiato il primo caso nazionale. Finora i controlli hanno dato esiti
negativi. Ho perso i contatti con gli altri miei compagni di corso, altrimenti
avrei chiesto anche a loro se hanno avuto conseguenze, dato che siamo stati
comunque in luoghi disseminati di bombe... Però devo dire che dove stavo io, Page, spesso dei tecnici analizzavano l’aria.
Hai qualche ricordo particolare di questo periodo?
- Decisamente mi ha formato. Sono partito ragazzino e sono tornato adulto.
Chi erano i tuoi compagni di corso?
- Eravamo tutti del sud. Del nord non ricordo nessuno. Siciliani, campani,
sardi, calabresi.
Panorama Tirreno, ottobre 2008
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