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Mari, il dolore della città e della famiglia
Adriano Mongiello
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In due giorni dalla gioia al dolore tra sabato santo e Pasqua: non riusciamo ad uscire da questo vicolo chiuso, raccolto tra l’esaltazione per una vittoria, attesa venti anni, e la mortificazione di una vita ancora da vivere di un ventisettenne. Non vogliamo crederci, perché non credevano si potesse essere artefici di un successo e, di lì a poche ore, protagonisti di uno scellerato destino. Cosa sarebbe accaduto se la domenica dell’incidente, costato la vita a Mari, fosse stata una delle tante, che non hanno il sapore della festa particolare, quale quella della Pasqua? Nulla, perché il calciatore avrebbe desistito dal desiderio di risvegliasi il giorno dopo, accanto ai suoi familiari, per sentirsi ancora una volta in sintonia con loro nel giorno della festa, e avrebbe smaltito i bollori della festa a casa di qualche collega calciatore, che lo aveva invitato, più volte, a non avventurarsi nel viaggio di ritorno in quel di Castellammare di Stabia, sua terra di origine. Ma, non è dato a noi, esseri umani, conoscere cosa si cela dietro l’angolo.
Abbiamo sfogliato le pagine, belle e tristi della storia del calcio cavese e non ci siamo imbattuti in un momento così enigmatico, così coinvolgente, così straordinariamente avvolgente dal punto di vista emotivo, così significativo per il tifoso acceso, o per il tifoso sensibile, o ancora per il non tifoso.
Ricordiamo il dolore per la scomparsa di Signorini, altro atleta ad indossare la maglia baincoblu numero 6, per la dipartita del presidentissimo Franco Troiano, per l’addio dei nostri colleghi Angelo Canora, Pippo Tarallo, Gino Avella. Ultima è giunta, solo pochi giorni fa, quella di un grande appassionato cavese, Raffaele Senatore.
Rimarrà impressa nella nostra memoria la compostezza della famiglia di Catello Mari, grande insegnamento di come si riesca a soffrire in silenzio e con dignità. Il giorno di Pasqua, a poche ore dall’incidente mortale, siamo stati a rendere omaggio alla famiglia dello scomparso, e non ci siamo imbattuti in persone in preda ad urla di disperazione, ma nel fratello che, di tanto in tanto, accarezzava ed annusava la divisa che il fratello aveva indosso, il giorno prima, nella speranza di abbracciarlo idealmente, e nel padre che ci sussurrava queste parole, e che ci martellano come un picchio sull’albero: «Vorrei trovare la forza per sentirmi, per qualche ora, solo nel mondo ed ascoltare l’eco della voce di mio figlio, che urla, ma che purtroppo non posso ascoltare».

Panorama Tirreno, maggio 2006


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