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storia
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Mamma Lucia
Vite spezzate dalla guerra: tutti suoi figli
Mamma Lucia (Lucia Apicella), quando nel marasma generale della guerra (in cui ognuno non
poteva pensare che a se stesso ed a sopravvivere) iniziò l’opera di raccolta dei resti mortali dei tedeschi caduti a Cava e dintorni e
seppelliti sotto breve zolla dai compagni in ritirata nel Settembre 1943, fu
sospinta soltanto dal suo amore materno e dai sentimenti di pietà cristiana, i quali, al di sopra degli odi, ammonivano di avere cura dei morti.
L’iniziativa, nella quale fu collaborata umilmente anche da
Carmela Passaro, commosse tutto il mondo ed il nome di Mamma Lucia divenne simbolo vivente del
dolore di tutte le mamme del mondo, di qualsiasi nazione e di qualsiasi colore,
per le tante giovani vite falciate dalla bestialità della guerra. Ella raccolse e portò nel Cimitero di Cava tutte le salme dei soldati tedeschi disseminate lungo la
vallata (un tedesco morto era stato lasciato dai compagni accanto ad una aiuola
dei giardini di Via Principe Amedeo presso la Stazione Ferroviaria, e ricoperto
con soli dieci centimetri di terra), e poi passò a raccogliere le salme abbandonate in tutta la Provincia di Salerno.
Tombe comuni di tedeschi caduti e sotterrati con dieci centimetri di terra si
trovavano un po’ dappertutto, e nemmeno le autorità ebbero il tempo od il pensiero di preoccuparsene, neppure per ragione di
pubblica sanità. Mamma Lucia e la sua compagna, facendosi collaborare da altri giovani
volenterosi, provvidero con un lavoro paziente, amorevole e pericoloso (perché le salme erano state sotterrate con tutte le bombe a mano attaccate alle
cinture), a raccogliere tutte le salme tedesche, a ripulirne le ossa, a
sistemarle in cassettini di zinco ed a portarle al Cimitero di Cava. Furono
rilevate le piastrine di riconoscimento di quei caduti che ancora le avevano, e
per gli altri fu custodito tutto ciò che potesse farli riconoscere dagli oggetti personali quando sarebbe stato il
tempo. I cassettini furono poi traslocati nella antica chiesetta di S. Giacomo,
che divenne così il Sacrario dei caduti tedeschi in attesa che potessero essere restituiti ai
familiari residenti in Germania. Le donne tedesche la benedissero e la vollero
in Germania, perché potessero abbracciarla e manifestarle i sentimenti di affetto e di gratitudine
per la grande opera umanitaria.
Il viaggio di Mamma Lucia attraverso la Germania fu un’apoteosi di fratellanza e di amore. Il Sindaco di Roma le conferì una medaglia d’oro capitolina appositamente coniata. Il Papa la ricevette in Vaticano per
impartirle la sua particolare benedizione. Salerno le conferì la sua cittadinanza onoraria, e riteniamo che Mamma Lucia sia l’unica cavese a diventare salernitana in tutta la nostra storia. La Presidenza
della Repubblica le conferì la Commenda al Merito della Repubblica. La fondazione Motta di Milano le conferì il premio della bontà “Notte di Natale”. E Mamma Lucia, veneranda vegliarda, con tutta umiltà ha continuato nella sua opera pietosa di carità cristiana, curando di aprire mattina e sera la chiesetta di S. Giacomo, come se
quello che aveva fatto non appartenesse più a se stessa ma ad altri.
Tratto da “Sommario storico-illustrativo della Città della Cava” di Domenico Apicella - Edizione Il Castello 1978
E Marotta pensò: “Troppa misericordia, non è storia per il cinema”
Il noto scrittore intervistò la Apicella per un soggetto cinematografico. Nella sua descrizione emerge la
grande personalità della nostra protagonista
Giuseppe Marotta
Andammo a Cava dei Tirreni, io e il regista Lionello De Felice, per conoscere ed
interrogare “Mamma Lucia”. Esisteva una mezza idea (tutto, nel cinema, è incompleto, reciso, monco; un film deriva per solito dagli avanzi di eterogenei
progetti di film, dalla inaudita balorda sovrapposizione di almeno due “mezze idee” imparentabili come un delfino e un paracarro) di trasferire sullo schermo le
rare avventure, l’angelico e forte carattere di Lucia Pisapia in Apicella. Chi non ha sentito
parlare di lei? Recuperò e ordinò le salme di parecchie centinaia di caduti sparse qua e là nella zona, sepolte con tragica fretta durante lo sbarco anglo-americano a
Salerno: tedeschi, in maggioranza, ma anche alleati, nonché qualche civile italiano.
Più effimera è la “mezza idea” germogliante in un “produttore”, più egli grandeggia: una maiuscola automobile e un elegante autista, impegnati per
telefono da Roma, ci pigliarono a Napoli dal “rapido” e ci trasferirono a destinazione. «Ritieni, Lionello, che sul serio G. abbia intenzione di realizzare questa
biografia cinematografica di “Mamma Lucia”?» dissi adagiandomi con voluttà sul sedile imbottito, a quanto pareva, di carezze nuziali. «Ne è talmente invaghito, che fino a stasera ci credo» rispose De Felice mentre sorvolavamo, nessun rude selciato potendo scuotere una
macchina di lusso, le ultime vie della città. Il cielo di gennaio, sporco di nere e ondulate nubi, un cielo (perdonatemi)
con la barba di tre giorni, ci accompagnò sull’autostrada Napoli-Pompei, l’unica veramente che svolgendosi in una campagna di un verde perenne, disperato,
ineluttabile, e additando l’azzurro Vesuvio che palpita e accorre, non sia gemella di tutte le altre.
Gruppetti di pini, sugli altalenanti poggi, sembravano consultarsi: pioggia o
sereno? e intuimmo che ben presto avrebbero deliberato.
A Cava, in una giornata di pioggia
Cava dei Tirreni, l’Eden di Palizzi che vi dipingeva animali felici e stalle calde e buie come
ascelle, è un borgo di cui non vidi che la piazza dove lasciammo l’automobile; il portico della principale arteria, sotto il quale rintracciammo
Lucia Apicella nella bottega di fruttivendolo del marito, era a due passi e
quando vi entrammo risuonò come un ombrello dei primi scrosci del temuto acquazzone. «Belli di mamma, e siete in viaggio con un tempo simile? Venite, andiamo da mia
cognata... è qui vicino, parleremo tranquillamente» disse la celebre vecchietta, senza deporre la nipotina che stringeva al petto.
Immediatamente si avviò; il marito, De Felice ed io la seguimmo rasentando i muri; un che di ibrido era
in lei, colpivano la sua indubbia umiltà e il suo taciuto ma probabile orgoglio, la sua disinvoltura e la sua modestia,
la sua innocenza di popolana e non so che giudizio, che talento di signora.
Fummo ricevuti nel tinello: non v’era traccia di riscaldamento e il freddo, non appena ci sedemmo intorno al
tavolo quadrato, ci addentò le gambe; la padrona di casa ci rivolse un tenue saluto, cuciva a macchina e
non interruppe un attimo il suo lavoro; era meglio, decise Lionello, che la
nostra eventuale protagonista ci riferisse tutto, di sé, fin dalla remota infanzia. «Avete ragione, belli di mamma... io sono pronta, incominciamo» disse Lucia Apicella, favorendo e insieme arginando gli scatti della piccina che le si dimenava in braccio.
«Mio padre era un negoziante di legnami. Ebbe quattordici figli, dei quali io
sono la penultima; rimasto vedovo sposò la sorella di mia madre, che gliene dette altri sei; totale, con buona salute:
undici maschi e nove femmine. Abitavamo a Sant’Arcangelo, nei pressi di Cava. Là studiai un poco, la terza elementare bastava, allora. Grandicella, quando non
ero in chiesa ero al telaio, per cinquanta metri di tela il mercante pagava
cinque lire. Non ricordo, non mi spiego come mi affezionai all’ospedale; ci andai una volta, belli di mamma, e non ebbi più l’animo di staccarmene. Portavo biscotti e arance ai ricoverati, facevo iniezioni,
assistevo gli agonizzanti... è brutto che il moribondo cerchi inutilmente una mano sopra le coperte, vi giuro; ma in famiglia ne ebbi rimproveri, per
questo! Gridavano che avrei portato in casa i microbi della tisi, e peggio...
siccome non ubbidivo quando mi ordinavano di smetterla con i malati, mi
chiamarono “la briganta”.»
Nel 1911 la difficile Pisapia fu impalmata dal “commerciante di frutta” (così il mite ometto domandò a De Felice e a me che lo definissimo) Gennaro Apicella. Nel ‘15, iniziatasi la serie delle guerre all’ultimo sangue, “Mamma Lucia” contrasse l’abitudine di ritagliare nomi di vittime dai giornali, e di incollarli in un
album: dedicava loro puntualmente, in chiesa, tridui novene comunioni. Le sue preghiere, così tempestive, così ubicate, dovettero spesso raggiungere il manto di Dio con un lieve anticipo
rispetto a quelle dei medesimi parenti dei soldati uccisi: e immagino che
abbiano suscitato in Lui un gustoso imbarazzo. «Ah che pena, belli di mamma, e chi avrebbe detto che vent’anni dopo l’inferno lo avremmo avuto addirittura sotto gli occhi, a Salerno, a Cava, sulle
nostre montagne, sui nostri lidi e nei nostri giardini?».
Il sindaco disse: “Ma chi ve lo fa fare?”
Lucia Apicella s’alzò per dar modo alla nipotina di tentare sul pavimento qualche incerto passo:
durante i silenzi della macchina da cucire s’udivano, fuori, vibrare foglie e gronde percosse dai nembi; era la musica,
inavvertita o fraintesa nelle metropoli, della pioggia che dove precipita larga
e severa, dove si sdraia pigramente, lasciandosi intercettare da una pergola o
da una cimasa, dove s’acuisce e fora, dove si polverizza, cattura il riflesso delle vetrate e ride.
Nel 1943 l’intero mondo era un letto d’agonizzante sulle coltri del quale non si posava una mano fraterna. Poi,
finalmente, l’Italia fu salva, occupata ma salva, i tedeschi vivi si dileguarono. Ma i
tedeschi morti? Ogni tanto, laggiù, ne riaffiorava uno; elmetti o stivali o bianche ossa emergevano dalla ghiaia
delle carreggiate, dalle pietre dei muretti crollati, dalle siepi, dalle aride
zolle che le vanghe casualmente violavano, dal raspare dei cani o della
grandine. Lucia Apicella inorridì, una volta, scorgendo in un prato certi ragazzetti che giocavano a rilanciarsi,
col piede, un teschio. «Ah, Cuore di Gesù, come posso aiutare quei poveretti? - mi domandavo. - E la notte sognai una
radura con otto croci abbattute. Comparvero otto soldati e mi scongiurarono:
se hai figli, tu ci devi rendere alle nostre madri! L’indomani, indirizzai una lettera al Comando alleato. Avete ormai vinto, l’odio è terminato, vi scrivo come una semplice mamma, permettetemi di sistemare i
cadaveri perduti. Risposta: è competente il Municipio di Cava. Gesù, disse il sindaco, ma chi ve lo fa fare? Ottenni l’autorizzazione, e due becchini, il 16 luglio 1946. Quante esumazioni! 13 salme
nella grotta di Monte Castello; 25 ad Arcara; 18 a Santa Maria al Tuono, 50 in
un campo di patate a Montoro Inferiore: io recitavo inginocchiata i requiem, e
i contadini singhiozzavano, chi per la compassione, chi per le piante rovinate.
In seguito i becchini mi abbandonarono, la fatica era troppa, mi arrangiai sola
o ricompensando qualcuno di tasca mia. A Brignano Superiore i marocchini
avevano fucilato tre persone. La località era evitata da tutti. Raccolsi nel grembiule, fra gli alberi, ciò che le intemperie non avevano disperso e consumato. Molte spoglie rimasero
ignote; robe e documenti, se c’erano, li affidavo al Commissariato. Una infinità di morti che ora hanno pace nei cimiteri di Salerno, Caserta, Napoli, e nella
chiesa di San Giacomo qui... Ma riposiamoci; belli di mamma, vi preparo un caffè?»
Voglio essere di ghiaccio come queste pareti e come questo pomeriggio invernale,
riflettevo, per giudicare con assoluta obiettività Mamma Lucia. Come è acuta e lucida la sua ingenuità! Come è schietta, disadorna, ma rigorosa e vagamente strategica, la sua maniera di
allineare i fatti! Come, senza parere, con estrema naturalezza, la narratrice è sempre al centro del racconto! Respinge brusca ogni timido intervento del
marito: per un secondo i suoi tratti s’induriscono, è un’ombra fulminea, ma un’ombra sulla sua lunga mansuetudine. Ebbene, pensavo, l’immensa genuina pietà di una donnetta avrebbe affrontato inerme l’indifferenza del sindaco, la superbia dei generali stranieri, il risentimento
dei coloni per lo scempio del seminato, eccetera? Sant’Ignazio non fu meno santo di San Francesco, pensavo: e d’altronde si maneggiano scheletri, si diventa un’instancabile talpa della carità, dell’amore, senza un’alta dose di coraggio, la quale necessariamente implica un fiero concetto di sé? Gli scavi, riferì la vecchietta, non di rado erano pericolosi. Mine, bombe, cassette di esplosivi
interrate, potevano capitare sotto il badile. «Ma il Signore, belli di mamma, vede e provvede. Io dicevo:
Cuore di Gesù batto sicura e una voce interna mi rinfrancava o mi tratteneva... Per esempio a San Nicola
Varco, nella proprietà Amendola, fui avvertita da un presentimento. L’uomo che avevo con me era padre di cinque tenere creature, lo allontanai con un
pretesto. E frugai con le unghie, piano piano, finché liberai dal terriccio, prima dei tre militari che cercavo, due proiettili alti
così...»
Gli oggetti rimasti del soldato
Lionello disse: «Mamma Lucia, e non vi siete mai sgomentata?» «Come no?», rispose. «Recentemente, quando mi invitarono in Germania e restituii alla madre del
caporale Joseph Wagner un anello, un portasigarette e un orologio che essa gli
aveva regalato nel 1940. Lo sventurato giaceva in un burrone della Montagna
Spaccata a Nocera Inferiore, fu l’unico morto segnalatomi nei paraggi. Basta, durante il viaggio mi tormentavo,
giustamente... Che faccio, entro nella casa, buondì signora Wagner, buondì, e arriviamo al momento che le porgo gli oggetti nudi e crudi? No, belli di
mamma, occorreva un intervallo, un respiro... c’era bisogno di un pacchetto da svolgere delicatamente, lentamente... dunque a
Roma, in un magazzino, espongo la mia necessità e mi regalano tutto, carta velina, spago di seta, un magnifico astuccio. Parola
mia, fu un’ispirazione dell’Addolorata! Figuratevi la stanza del ragazzo, con i lumini e i fiori davanti al
suo ritratto sulla mensola, figuratevi quella infelice che le tremano le dita
mentre tocca la scatola e riconosce dalla forma, a poco a poco, l’orologio, il portasigarette, l’anello. Ne avevo sofferte tante... eppure che strazio, abbiate pazienza, un tale
incarico non lo accetterò mai più.»
“Mamma Lucia” pianse quieta quieta, un pianto senza urti, senza esclamativi, di lisce
virgole... un rapido elenco di lacrime. Le sue ginocchia inasprite dai ciottoli
e dalle ortiche non smisero di blandire la nipotina che le si era addormentata
in grembo. Tacemmo. Io mi confessai (apparentemente vergavo noterelle per l’ineffabile “produttore” G.) al signor me stesso. Ragiona, Marotta: queste vicende e questi sentimenti
si addicono al cinema, anzi a chiunque, alle innumerevoli persone che
attualmente sognano, in qualità di spettatori o di attori, conflitti, rivalse, aggressioni, patiboli,
sovvertimenti, brutalità e violenze di ogni specie? Nei palazzi e nei tuguri, nelle officine e sulle
vie, nei Parlamenti e nei gabinetti scientifici, è l’ora degli ossessi, degli energumeni, dei posseduti. La bandiera di Lucia
Apicella, uno straccetto di generosità e di misericordia, non avrà, nella realtà come nella finzione, chi la raccolga e la riagiti. È chiaro, Marotta?
«Belli di mamma, arrivederci presto...»; con le sue scarpe chiodate, l’incessante diluvio ci pedinò fino a Napoli.
Tratto da “Le madri” di Giuseppe Marotta, Bompiani editore
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