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Panorama oltre il Tirreno
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Birmania, viaggio nel tempo
Elisabetta Muraglia
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Aeroporto di Fiumicino. Ritiro il bagaglio, saluto i compagni di viaggio e corro a casa. Ho bisogno di farmi una bella doccia, di sciacquare le emozioni di questo intenso viaggio, che mi si sono appiccicate addosso. Stanno entrando nella mia pelle e devo tirarle via se voglio continuare a vivere nel mio paese. Ho paura di rimanere legata ad un sogno e di non volermi svegliare per farlo continuare in eterno. “La bellezza non è una forma o un colore, ma è negli occhi; così il viaggio che abbiamo fatto insieme”. Questa è la frase con cui mi hanno lasciato i miei amici birmani all’aeroporto di Yangon. La bellezza è nella semplicità dei sentimenti, aggiungo io pensando a loro.
Ogni volta che torno da un viaggio penso che non partirò più, che non vorrò soffrire di nuovo per aver lasciato cose e persone di cui mi sono innamorata, perché per me ogni viaggio è come un nuovo amore. E’ un sentimento che mi cattura dentro e mi reca un gran vuoto, quando devo lasciare le persone che mi hanno accompagnato lungo questo cammino. La Birmania è così, anzi il Myanmar, come lo chiamano loro rinnegando tutti i nomi che la colonizzazione britannica aveva imposto. Dal 1947 è una repubblica federale comprendente la Birmania propriamente detta, lo stato dei Karen (in cui dal 1948 c’è una guerra di resistenza al governo birmano che l’ha invaso), 33 principati feudali Shan, i territori di Kachin e la divisione dei Chin. Ma dagli anni ’60 si sono susseguiti i colpi di stato organizzati dai militari. E’ un paese xenofobo, ma i suoi abitanti sono socievoli e premurosi nei confronti dei turisti. Ripenso alla gente dal sorriso ingenuo e puro, alla dieta prettamente vegetariana, ai paesaggi incantati di Pagan, agli orti galleggianti del Lago Inle, alle maestose pagode della capitale. Quasi al centro del paese scorre l’Irawadi, un importante fiume, lungo le cui coste sorgono le antiche capitali del vecchio regno (Pagan, Amarapura, Ava, Sagaing).
Il viaggio è iniziato con un sorriso, quello della guida birmana Win all’entrata del ristorante in cui la sua agenzia ci ha offerto la cena correlata da spettacolo di danza, la sera dell’arrivo. Rideva come un bimbo quando l’autobus con cui ci ha portati fin là non si apriva ed allo stesso modo spassionato ridevano gli altri turisti fuori dal pullman e noi all’interno. Certo che come inizio non c’è male!. Poi il suo sorriso ci ha seguito per tutto il viaggio. Penso ci trovasse buffi. Viaggio intenso attraverso i sentieri orientali del misticismo: dalla Golden Rock, la pietra d’oro in bilico sulla montagna che secondo una leggenda si sostiene solo grazie ad un capello del Budda, alla Shwemawdaw Pagoda di Bago, seconda solo alla sua omonima di Yangon; dal Monte Pegu Yoma, in cui si trova il vulcano spento Popa, a 1600 metri sul livello del mare, uno dei maggiori santuari birmani, alla caverna di Pindaya con le sue 8600 immagini del Budda.
E poi i vari monasteri sparsi per tutto il paese (compreso quello intitolato ai gatti saltanti) ai Budda dormienti, reclinati, d’oro, in piedi, seduti, bonari ed indulgenti.
Myanmar, un paese da cui non puoi uscire indenne
La Birmania è sostanzialmente agricola con coltivazioni di riso, arachidi, cotone, te, tabacco, legumi ed immense foreste di tek. E’ un paese sottosviluppato industrialmente e commercialmente e forse questa carenza ne ha fatto la sua fortuna, mantenendola integra e senza influenze occidentali. E’ stato per me un tornare indietro nel tempo, quando osservavo i campi arati con i buoi, le donne che attingevano acqua dal pozzo per preparare la cena od osservare la macinazione delle arachidi da olio con il mulino a pietra. Un paese in cui la gente si lava nei fiumi e sviluppa un processo di adattamento all’ambiente così forte da vivere sul lago con il lago; quindi palafitte come abitazioni e come officine di lavoro con filande, laboratori artigianali e negozi.
Sul Lago Inle situato nell’altipiano Shan, ho osservato i metodi d’approccio dei venditori ambulanti del flotting market (mercato galleggiante) e la spettacolarità degli orti galleggianti. Interi filari stretti e lunghi in cui si coltivano pomodori, verdure varie e fiori. Gli orti si reggono su piattaforme create da alghe e terriccio.
E poi Pagan, (nata tra l’850 e il 1500 d.c.), come non ricordare il tramonto sulla valle delle pagode e la passeggiata in bicicletta tra i suoi misteri. Alla fine del XIII secolo, in quest’area c’erano 4446 edifici. Nel 1978 l’ultimo censimento annoverava 2230 siti archeologici integri. Alla fine del secolo scorso, un petroliere tedesco rubò molte sculture ed altri oggetti che oggi sono al Vokerkunde Museum di Berlino.
Il Myanmar è un paese da toccare in punta di piedi, nel senso letterale del termine, perché ovunque c’è un luogo sacro in cui è d’obbligo camminare scalzi, non sono ammesse neanche le calze e ti infonde emozioni contraddittorie, sia quando tocchi con mano la realtà dei miei amichetti Moon e Sun (2 e 4 anni), i cui genitori sono morti da poco per dissenteria; sia quando ho conosciuto per strada un ragazzo, che non può studiare perché l’università è chiusa da due anni per motivi politici; sia quando ho osservato incuriosita la mamma che spidocchiava la figlia sul marciapiede, o quella signora che al mercato mi ha inseguito solo per offrirmi gratis un frutto che incuriosiva un mio amico ed ha sgridato la commerciante che voleva vendergli le banane a prezzo maggiorato.
E non si può neanche dimenticare la storia di Su Kyi, che nel 1991 ha ricevuto dal Parlamento Europeo il premio Sakharov per la libertà di pensiero ed a ottobre dello stesso anno ha avuto il Nobel per la pace, per la guida del movimento per la democrazia, ma è tuttora agli arresti domiciliari proprio per questa sua attività. E’ un paese da cui non puoi uscire indenne. Ti avvolge e ti segue anche a casa tua. Il Myanmar è così: è un viaggio cha dagli occhi si trasferisce nel cuore e lì alberga impunito per sempre.