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attualità
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La scomparsa di un acceso meridionalista
Barone, giornalista e uomo di cultura
sempre originale e “fuori dal coro”
Era il 1977 quando l’ho conosciuto, quando ho cominciato a scrivere per il suo “Il Lavoro Tirreno”. Era un po’ la “terza via” della stampa locale, schiacciato dai veterani “Il Castello” di Mimì Apicella e “Il Pungolo” di Filippo D’Ursi. E il giovane Lucio Barone, in effetti, scelse di mettere in piedi un
giornale diverso.
Il suo pallino era quello di realizzare un quotidiano. Ne parlava con
convinzione già molti anni prima dell’avvento di altri quotidiani provinciali che si sono posti come alternativa al “Mattino” e al vecchio “Roma”. L’idea poteva sembrare balzana per chi conosceva gli indici di lettura della
provincia, le scarse risorse economiche e i non potenti agganci politici di cui
avrebbe potuto disporre, per di più in un’epoca in cui non esisteva ancora l’editoria elettronica che semplificava i processi. Ma Lucio era capace di
convincere della bontà dell’idea gli interlocutori che gli stavano vicino e che avevano stima della sua
iniziativa e conoscenza dell’ambiente. Ed io ero tra quelli. Poi, per la verità, la possibilità di realizzarla rimase solo un fatto teorico, preso come era da mille altre
imprese, tutte originali, tutte faticose e di difficile impatto nella realtà sociale che lo circondava, dalla ceramica all’impegno meridionalista, all’amore per la poesia, alla ricerca di storia locale che lo portò fra i primi a produrre per la sua Mitilia una raccolta di foto d’epoca di Cava e Vietri ed a pubblicare a fascicoli (anche questa una novità) un prezioso dizionario della lingua napoletana curato da Domenico Apicella.
Con lui ho conseguito la tessera di pubblicista e come me decine di altri
cavesi. Sapeva centellinare consigli sul “mestiere” sempre appropriati, come quando, con grande delicatezza, a fronte della mia
giovanile e ingenua imperizia con cui soccombevo all’arroganza di qualche politico locale in alcune interviste televisive, mi diceva,
senza riferirsi in maniera diretta al fatto specifico, che bisogna stare sempre
attenti a non vanificare in pochi minuti davanti alle telecamere l’immagine di ironia e concretezza costruita negli anni attraverso la penna. Capii
il messaggio e compresi che, almeno in quel momento, la televisione non era il
mio mezzo.
L’altro suo grande amore, su cui per un po’ l’ho seguito, era la ceramica. Era l’85 quando caricava sulla sua macchina i maestri ceramisti Carrera e Autori e
correva nel Cilento, a Camerota, a tenere un corso di ceramica teorico-pratico
nell’ambito di un progetto di sviluppo economico della zona. Lui teneva lezioni sulla
storia dell’arte della terracotta e i due maestri addestravano i giovani interlocutori al
tornio e nella decorazione. Ma si sentiva davvero in paradiso quando
soggiornava a Villa Guariglia, in tutte le estati in cui riuscì ad organizzare nei meravigliosi giardini la Rassegna internazionale. Col suo
consueto spirito battagliero mi annunciò qualche tempo fa che avrebbe dato una sonora lezione ai vietresi che si
mostravano insensibili al suo impegno per promuovere l’arte della ceramica. E portò la rassegna a Cava, a S. Maria del Rifugio. Poi, anche qui, il rapporto con l’amministrazione comunale si è deteriorato fino a portarlo a un eclatante sciopero della fame davanti al
Comune. Ma lui era sempre pronto a ripartire e l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto il tempo, con l’entusiasmo e la voglia di lottare di sempre.
Come quando appresi con stupore che era candidato a sindaco di Napoli alla guida
di Alleanza meridionale. Erano le elezioni del 1997, quelle della riconferma di
Bassolino, e Lucio si propose per la poltrona di primo cittadino partenopeo. «È per darci una visibilità politica – si giustificò - che ci siamo lanciati in questa avventura. E non ci costa nulla, non
sperpereremo denaro in campagna elettorale, in quanto faremo conoscere le
nostre idee solo attraverso i mass media che ci ospiteranno», aggiunse con il consueto senso pratico.
L’avventura per lui entusiasmante nel movimento meridionalista ha caratterizzato
il suo impegno politico dopo la caduta della Dc, nella quale era stato
militante, quasi sempre in opposizione al leader cittadino Eugenio Abbro. Una
volta che lo stuzzicai su questa sua nuova avventura che lo aveva portato a
contatto anche con movimenti borbonici, mi spiegò: «Come esponente della Dc, avevo sempre manifestato le mie convinzioni fortemente
meridionaliste. Quando il partito si è frantumato ed è scomparso, mi sono sentito libero di seguire la mia vocazione, impegnandomi
nell’ambito di questo movimento in cui credo». Era un sostenitore di un forte federalismo: «Napoli deve essere capitale morale e politica di una confederazione arbitra del
proprio destino. In una visione nazionale unitaria, su questo non devono
crearsi equivoci. Napoli capitale rifiuta di essere portata per mano. Nell’Italia unita dovrà essere costruito un ordinamento fortemente confederale, anche più accentuato che negli Stati Uniti. Alla Stato centrale dovrà restare solo la politica monetaria, la difesa e la politica estera».
Concludo con due ultimi ricordi personali: quando gli annunciai di aver trovato
lavoro a Roma. Lessi sul suo viso il piacere immediato della bella notizia,
subito dopo turbato dall’inquietudine; e sinceramente disse: «Sono contento per te… certo, questa terra perde un altro giovane che le sarebbe stato utile».
E poi, quella volta in cui mi spiegò di aver già lottato contro il tumore e di esserne uscito: «Per il momento ce l’ho fatta, ma è stato un periodo difficile». E subito dopo a raccontarmi di altre sue idee e iniziative, perché non concepiva di rimanere fermo, come mero osservatore, perché doveva sempre impegnarsi in nuove avventure. Sempre originali, sempre fuori dal
coro.
Non ci vedevamo più tanto spesso, ma Lucio Barone già mi manca.
Enrico Passaro
Panorama Tirreno, febbraio 2005
“La sofferenza degli altri è nostra sopportabile sofferenza”
Lucio Barone
E’ questo l’ultimo articolo che Lucio Barone ha scritto su Fermento, mensile dell’arcidiocesi Amalfi-Cava nel numero di agosto/settembre.
Mentre il treno correva veloce nella notte e nei vagoni regnava sovrano il
silenzio, mi si affollavano mille pensieri nella mente: ero in attesa di
giungere alla meta con gli altri 500 e più malati e fedeli tutti insieme guidati dal nostro pastore, l’ecc.mo Arcivescovo Orazio Soricelli in un pellegrinaggio di fede e di speranza
alla volta di Lourdes, ai piedi dei Pirenei, dinanzi alla magica e miracolosa
grotta dove Maria, figlia e madre di Dio, si manifestò più volte alla ignara Bernadette riaffermando la sua immacolata concezione e il
desiderio di essere lì, in quel posto eccelso e prescelto, ricordata ai posteri e a quanti avessero
voluto ricorrere al suo misericordioso ed infinito patrocinio. Anche noi
ricorrevamo fiduciosi alle sue braccia immense che portano grazie - come
cantava S. Alfonso Maria de’ Liguori - (Maria de la grazia, ca ‘mbraccie puorte grazie...). E quando le tenebre della notte si squarciarono in
un’alba radiosa ci ritrovammo nella valle benedetta a vivere la nostra esperienza
di cristiani credenti e devoti: una esperienza unica,irripetibile, piena di
emozioni continue, dalla via Crucis alla fiaccolata, alla messa internazionale,
alla messa alla grotta, alla immersione nella gelida acqua che sgorga copiosa
ai piedi della grotta, alle folle oceaniche che si accalcano da tutto il mondo
in questo luogo di fede. Una settimana quella di Lourdes, dove l’animo si è rasserenato, dove la sofferenza degli altri è diventata nostra sopportabile sofferenza, dove la nostra sofferenza si è annullata dinanzi alla terribile condizione di tanti ammalati martoriati nel
corpo, assistiti amorevolmente dai volontari UNITALSI, maschi e femmine che -
bisogna dirlo - si sono spesi al massimo per tutti, anche nell’assicurare nelle ore della calura che hanno accompagnato il viaggio di andata, l’acqua fresca, refrigerio indispensabile per superare le angustie di un percorso
alquanto lungo e non proprio agevole. E siamo ai ricordi dopo il ritorno sereno
al luogo di partenza. Un bagno di fede, di amore, di autentica cristianità, dove la preghiera si è aperta al perdono per tutti, anche per i nemici; una sensazione di benessere,
di serenità che accompagnerà il nostro fragile ed incerto cammino futuro. Tutto sommato questa esperienza
tutta quanta vissuta dai pellegrini dell’Arcidiocesi di Amalfi-Cava de’ Tirreni è stata una esperienza fortemente positiva, salvifica, piena di grazia interiore
che squarcia il cuore alla meditazione ed al pensiero dell’aldilà, nel nome di Maria Vergine e Madre.
Panorama Tirreno, febbraio 2005
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Lucio Barone
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