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storia
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Cinquant’anni di dominio DC
nel regno di Eugenio Abbro
Biagio Angrisani
Nei primi anni del dopoguerra Cava
diede forza alla Democrazia Cristiana e, in perfetta linea con
lo spirito politico campano, contribuì anche ad
alimentare una presenza monarchica cospicua. Socialisti e
comunisti, repubblicani, liberali e missini erano minoritari in
consiglio comunale rispetto al ceppo democristiano-monarchico
(poi saldatosi in un unico blocco DC) che nelle sue varie
evoluzioni dominerà la città, per decenni.
Nel 1952 diventò sindaco Luigi Formosa che
restò in carica sino al giugno del 1954, mentre a Roma
si avvicendavano nella carica di Presidente del Consiglio i
vari De Gasperi, Pella, Fanfani e Scelba, tutti DC. La crescita
della popolazione cavese alimentava la domanda di
attività edilizia e anche sul territorio metelliano
giunse il piano statale Inacasa voluto da Fanfani. La scelta
degli insediamenti e la realizzazione, a distanza di mezzo
secolo, si è rivelata intelligente e di buona tenuta
anche alla prova di violenti terremoti a differenza di altre
opere successivamente costruite.
Nel giugno del 1954 Eugenio Abbro ebbe il suo
primo mandato di Sindaco che tenne sino al novembre del
’58. Istruttore di educazione fisica, personaggio deciso
e buon conoscitore dell’indole cavese, Abbro ha gestito
la carica di Sindaco, in diverse epoche, in prima persona per
circa 25 anni, insieme ad amici e alleati per oltre
quarant’anni, diventando il punto di riferimento a Cava
nell’arcipelago democristiano imperante in Campania. Il
debutto di Abbro sulla scena politica avvenne sotto le insegne
del partito monarchico. Tirocinio utilissimo, perché
quando approdò in casa diccì riuscì a
trovare sempre la corrente giusta per gestire il Comune e, nei
successivi decenni, per fare carriera a livello provinciale e
regionale. Abbro ereditò una macchina amministrativa
comunale all’avanguardia nel sistema contabile e la
città era una delle più ricche del Sud Italia.
L’economia statale (Manifattura, Agenzia Tabacchi) creata
dall’Italia prefascista assicurava un diffuso ceto
operaio garantito ed era il naturale sbocco della
tabacchicoltura diffusa nell’agricoltura metelliana,
mentre il secolare commercio consentiva alle famiglie in
impresa, in molti casi, un livello di vita medio-medio alto.
Dal novembre 1958 al dicembre del 1960 fu
sindaco il diccì Raffaele
Clarizia che poi lasciò le
chiavi del potere di nuovo nelle mani di Abbro, che per ben
dieci anni governò indisturbato. Cava non era San
Giorgio a Cremano, ma nella seconda metà degli anni
Cinquanta furono buttate le basi per far assomigliare una delle
più belle e ricche cittadine del Mezzogiorno
d’Italia a un paesone simile ai tanti scempi urbanistici
presenti nell’hinterland napoletano. E uno degli ideatori
e artefici di questa assurdo progetto fu proprio il
“professore”. Il carissimo prezzo che la
città doveva pagare era la distruzione quasi totale del
centro storico. Cava de’ Tirreni, secondo comune della
Provincia per numero di abitanti, doveva diventare, nei
progetti di questo blocco politico-imprenditoriale, una
città di circa novantamila abitanti, considerando la
disponibilità di zone (boschi di colline e monti)
utilizzabili. La speculazione partì in grande stile e in
pieno centro storico furono date licenze per
l’edificabilità dei Palazzi Rizzo, veri e propri
colossi di cemento armato a ridosso dei secolari e storici
palazzi. Il progetto, per fortuna, non fu mai portato a
compimento secondo i desideri originari grazie alla tenace
opposizione di partiti politici e associazioni presenti sul
territorio e a una serie di leggi che non permisero
l’insana follia. Le nuove generazioni non sanno che una
lobby politico-economica contava di radere a zero il
centro storico da via A. Sorrentino sino a via della
Repubblica, sostituendo gli storici palazzi con allucinanti
grattacieli. L’insano progetto fu poi modificato: il
risultato di quelle lotte e mediazioni (con approvazione del
Piano regolatore) sono i palazzi di notevole dimensioni
che fanno da cintura al borgo Scacciaventi e al restante centro
storico. Con il forte traino dell’industria edilizia che
produsse senza dubbio un aumento della massa monetaria
circolante, Abbro ottenne consensi e gestì senza
problemi il potere negli anni sessanta, costruendo la sua
ascesa personale che lo doveva portare a ottenere cariche nei
consigli provinciali e regionali.
Per capire lo spirito del tempo
segnaliamo il celebre film di Francesco Rosi, “Mani sulla
città” (1963). Fu girato a Napoli dove ogni cosa
esplode all’ennesima potenza, ma è una
significativa cartina di tornasole per capire che aria tirava
nell’Italia del boom economico.
Il progetto Cava città sportiva,
uno dei cavalli di battaglia di Abbro, prevedeva stadio,
velodromo, piste, piscine scoperte e coperte, palazzetto dello
sport, palestre e una serie di opere minori. La maggior parte
delle opere messe in cantiere non è stata realizzata
secondo i piani originari o non è stata più
fatta. L’unica opera completa è lo stadio
comunale (oggi “Simonetta Lamberti”), sul modello,
in scala, dello stadio Olimpico di Roma. Le altre iniziative o
sono abortite sul nascere o le modifiche nel corso
d’opera le hanno storpiate insieme ai modesti materiali
utilizzati. La Piscina comunale, di misure olimpioniche, e
ubicata nel cuore della città, reca tare tali che la
rendono pressoché inutilizzabile. L’idea di Cava
città dello sport, era ottima... ma il risultato finale
è stato modesto e non soddisfa nemmeno le esigenze della
popolazione attuale.
Il costruttore Casillo, oltre a vari
palazzi (e l’ottimo stadio), realizzò anche il
complesso edilizio del Social Tennis Club dove nei primi anni
sessanta la riccotta borghesia cavese e salernitana assisteva a
incontri di tennis, spettacoli musicali e si dilettava nel
gioco delle carte che raggiunse interessi tali da far
sorgere in diversi esponenti politici ed economici l’idea
di creare a Cava un casinò come a Venezia o Campione
d’Italia.
Intanto la città cambiava volto.
Progressivamente si assottigliavano gli appezzamenti di terreno
dediti alla produzione del tabacco e molta manodopera espulsa
dai campi approdava nell’ edilizia. Il commercio
cittadino conservava una sua specificità grazie al
background secolare. I commercianti cavesi se la passavano bene
anche se, con l’abbandono di molte attività
artigianali (mito dell’industria a tutti i costi) si
andava lacerando un tessuto connettivo che avrebbe poi messo in
crisi, successivamente, lo stesso terziario mercantile, settore
trainante dell’economia cittadina.
Negli anni settanta il fallimento di una
scellerata politica industriale (mega stabilimento) nel settore
della ceramica oltre a produrre disoccupazione, tarpò le
ali anche allo sviluppo di piccole e medie imprese più
legate alla tradizione del territorio e alla scuola di ceramica
locale di buon livello che poteva invece conquistare grandi
mercati con altri tipi di prodotti.
Causa indisponibilità di Abbro,
impegnato in altre faccende politiche extra comunali, dal 1970
al 1973 diventò sindaco Vincenzo
Giannattasio, avvocato,
democristiano, assicuratore. La consistente pattuglia dc in
seno al consiglio con l’appoggio di vari alleati
continuava a governare la città poggiando soprattutto
sul consenso interclassista dello scudo crociato. Il dibattito
nel consiglio comunale di Cava, era sempre stato vibrante,
grazie alla presenza di figure come Riccardo Romano (comunista
e senatore della Repubblica), Gaetano Panza (socialista),
Domenico Apicella (socialdemocratico).
Diego Ferraioli, medico, dc, amministra dall’aprile del
’74 al giugno del ’75. Il 12 maggio, appena
Sindaco, firmò i verbali del voto cavese sui risultati
dei referendum per l’abrogazione del divorzio, ma non
quelli delle elezioni regionali dell’anno successivo che
diedero alla DC oltre il 36 per cento dei voti. Abbro, sempre
col vento in poppa, svolge il ruolo di patriarca. Dopo il
Ferraioli le redini del comune finiscono nelle mani di Andrea Angrisani, dc,
avvocato, di origini nocerine, che dal settembre del ’75
al gennaio del ’78 manda avanti la macchina comunale. La
Dc era stata parzialmente penalizzata dagli elettori: non aveva
più la maggioranza assoluta come nella precedente
legislatura, ma restava indiscutibilmente il primo partito.
Aveva bisogno di un alleato e non trovò di meglio che
affidarsi al voto esterno del Movimento Sociale per continuare
ad amministrare da sola la città. La tensione politica
in Italia era altissima. Lo scontro si radicalizzò e
anche a Cava si registrano squallidi episodi di squadrismo
compiuti da mazzieri salernitani. A pagarne le conseguenze
furono alcuni studenti impegnati a democratizzare la scuola
negli anni in cui venivano introdotti i decreti delegati. La
piazza venne attraversata dai fremiti della violenza politica.
La sede del Msi (sopra il bar Liberti) fu assaltata da
esponenti di Lotta Continua; quella del PCI (dov’è
oggi il Respighi) ospitò concitate assemblee giovanili.
I ciclostili giravano a pieno regime. Al di là del clima
che investiva tutto il Paese in quegli anni, non si poteva fare
a meno di attribuire la causa di quelle violenze locali
all’infelice scelta del partito di Abbro di coalizzarsi
con i missini.
Erano anni nei quali molti abusi edilizi
marciavano a tutto gas anche perché poi venivano sanati
dai vari condoni a cascata con i quali il sistema centrale
democristiano provvedeva a gratificare gli enti locali per
autoalimentare una parte delle entrare nel bilancio del Paese,
spingendo però in tal modo l’inflazione in alto e
massacrando il territorio.
Il vero potere politico di Abbro sulla
città lo si individua soprattutto negli anni durante i
quali non ha svolto la funzione di Sindaco. Don Eugenio, prima
eletto alla Provincia e poi in Regione, nell’immaginario
cavese lavorava per la Città, col mestiere della
politica, mentre i suoi epigoni amministravano la res pubblica
locale.
Intanto in larghe zone della Campania,
nelle vecchie e nuove roccaforti, la camorra organizzata si
espandeva e faceva un salto di categoria. Oltre a svolgere le
attività tradizionali (sigarette, droga, prostituzione e
altri commerci illeciti) allargava ancora di più il suo
controllo su diversi esponenti della classe politica
interessata agli appalti pubblici, essendo diventata
imprenditrice, e iniziava anche a penetrare in vari settori
finanziari ed economici.
A livello regionale in seno alla scudo
crociato la corrente dei Gava, padre e figlio, andava alla
grande ma per una “questione di immagine” molti dc
campani (e anche cavesi) si definivano
“andreottiani”. Vent’anni dopo i grandi
referenti sarebbero poi finiti alla sbarra accusati di
connivenza con mafia e camorra.
Moro venne rapito dalle B.R. il 12 marzo
’78, vigilia del IV governo Andreotti che doveva segnare
l’ingresso del PCI nell’area della maggioranza. Il
cadavere dello statista scombussolò l’Italia
politica e alcuni contraccolpi si fecero sentire anche nelle
periferie. Il sistema politico italiano con la Democrazia
Cristiana nel ruolo di partito-stato iniziava a mostrare le sue
crepe e le cose indicibili.
Nella valle cavese per due mesi
abbondanti (maggio-luglio 1978) divenne sindaco Bruno Lamberti, luciano,
dc. Fragilissimo fu il suo mandato, frutto di una insanabile
spaccatura all’interno della democrazia cristiana cavese.
In un accaldata serata dell’agosto
1978, davanti a un pubblico numeroso e rumoreggiante, il
consiglio comunale di Cava elesse Sindaco l’indipendente
di sinistra Giuseppe Sammarco a capo di una di giunta sostenuta da PCI,
PSI, PSDI e indipendenti. Determinanti furono alcuni
“ribelli della DC”. L’elezione di Sammarco,
sostenuto da uno schieramento comunque minoritario, segnava un
cambio epocale. Per la prima volta si rompeva un monopolio, ma
fu più un atto simbolico, dato che i risultati pratici
furono modesti. Fu anche la prima e unica volta di Riccardo
Romano assessore. La giunta Sammarco dovette far fronte a una
crisi economica in atto e resa ancora più dura dai
licenziamenti e dalla cassa integrazione in vari segmenti
dell’industria cavese. Ma durò pochissimo. I
consiglieri democristiani, almeno per una volta uniti, decisero
di dimettersi in blocco insieme con i due esponenti del MSI.
Cade il consiglio comunale e si va a nuove elezioni.
Con la nuova infornata (che premiò
ancora la Dc) diventò sindaco Federico De Filippis, che
per due anni (gennaio 1979-gennaio 1981) diresse il Comune
naturalmente sotto l’ala protettiva di Abbro.
Quest’ultimo, terminata la tournée politica
extra-comunale, ritornò a gestire in proprio la macchina
comunale nel gennaio del 1981 sino al maggio dello stesso anno,
mettendo a tacere, con la sua presenza tutte le fronde interne
e facendo sentire il suo peso nel rapporto con gli alleati
laici. E poi c’era da gestire l’emergenza del dopo
terremoto e il professore pensò bene di impegnarsi in
prima persona.
Mentre a Roma per la prima volta andava a
Palazzo Chigi un laico (Spadolini), a Cava ritornava sindaco
Andrea Angrisani che restò in carica sino al mese di
ottobre del 1983, per ripassare il pallino nelle mani di Abbro.
Una specie di ping-pong che aveva nel consenso popolare la sua
legittimazione ogni volta che si tornava alle urne. Il blocco
politico-economico al potere che aveva nel deputato dc Giovanni
Amabile (azionista della maggiore banca cittadina, l’ex
CCT, del gruppo Tirrena assicurazione e della società
Metelliana spa) uno dei maggiori referenti, riesce a conservare
abbastanza agevolmente la gestione della città anche
grazie all’appoggio di vari esponenti di liste locali.
Dall’ottobre del 1983 al dicembre
del 1993 Abbro è di nuovo sindaco. Un lungo decennio
durante il quale la città si depaupera vistosamente. La
piccola Svizzera della Campania diventa sempre più un
tipico comune del salernitano senza più
quell’appeal che l’aveva resa famosa nei secoli. La
galleria ferroviaria Nocera-Salerno la taglia fuori da una
delle grandi arterie di comunicazione.
Negli anni ottanta in Campania sono gli
anni della NCO (Nuova Camorra Organizzata). Il grande affare
post-terremoto, legato alle decine di migliaia di miliardi
statali per la ricostruzione, scatena gli appetiti degli squali
e la Campania viene messa a ferro e fuoco dalla camorra che
trova complicità anche all’interno delle
istituzioni. Sebbene la camorra fosse presente in Campania
ormai da quasi quattro secoli (brutto regalo degli spagnoli e
poi abilmente gestita nei secoli da delinquenti comuni,
latifondisti senza scrupoli e persino dal sovrano napoletano
nei momenti di crisi del Regno borbonico) sino agli
ottanta Cava era considerato un centro poco permeabile
all’influenza camorristica, ma da successive indagini
della DIA e da episodi avvenuti (regolamenti di conti con morti
tra bande rivali, arresti, ritrovamenti di armi, etc...) si
è avuto la triste conferma della penetrazione di questo
cancro nel tessuto sociale ed economico cavese. Una delle poche
aree ancora immuni del salernitano era stata contagiata.
Il più clamoroso caso di cronaca
nera lascerà senza vita il corpo della giovanissima
Simonetta Lamberti, figlia di Alfonso, giudice noto anche per
l’attività universitaria, pubblicistica e per le
sue vicende personali che lo porteranno poi in carcere per una
serie di reati legati alla vita personale e professionale.
Nell’ultimo quindicennio la
più grande opera pubblica cavese messa in cantiere, la
copertura della ferrovia e relativo parcheggio, è stata
realizzata solo parzialmente rispetto al progetto complessivo e
su quest’opera, attesa da tutta la città,
c’è stato anche l’intervento dei giudici
salernitani per l’operato di alcuni protagonisti.
Dal 1993 al 2001 a Cava è stato
sindaco Raffaele Fiorillo, cavese. Nei primi mesi dell’anno le
sinistre insieme agli altri partiti del centro trovarono il
coraggio di scalzare Abbro e i suoi e di condurre il Comune
fino alle elezioni, le prime col nuovo sistema elettorale. Al
sofferto e combattuto ballottaggio Fiorillo superò
Eugenio Abbro e divenne il primo sindaco eletto direttamente
dal popolo.
La giunta progressista ha ereditato mezzo
secolo di dominio DC. Finanze all’asciutto, opere
pubbliche bloccate dalla magistratura, rete idrica allo
sfascio, strade dissestate, migliaia di persone ancora nei
prefabbricati dal terremoto dell’80, più di una
serie di ostacoli come alcune potenti lobby economiche legate
ai vecchi referenti politici.
Nei due quadrienni
l’amministrazione ha puntato a risanare le finanze
(migliaia di persone non pagavano adeguatamente l’acqua e
la spazzatura da anni) riuscendo a riequilibrare i conti e ha
varato diversi lavori pubblici portando a termine la
pedonalizzazione del centro storico e la relativa
ristrutturazione di Piazza Duomo. Altre opere pubbliche hanno
interessato le frazioni. Abbastanza coraggioso anche il
programma di politiche sociali rivolte ai giovani e agli
anziani in un quadro politico-economico nazionale orientato
all’austerità delle forche caudine imposte dai
trattati di Maastricht.
Dopo otto anni di centrosinistra, con
Raffaele Fiorillo primo cittadino, le elezioni per il rinnovo
del consiglio comunale del 2001 portano il centrodestra al
governo della città. Nelle elezioni di maggio Alfredo Messina batte
al ballottaggio il candidato del centrosinistra Francesco
Musumeci. Messina nelle precedenti elezioni aveva tentato la
scalata al posto di primo cittadino. La sua maggioranza
è composta da 18 consiglieri eletti nelle fila di Forza
Italia, Ccd.
Già capo dell’ufficio legale
del Comune, Messina aveva iniziato la scalata politica nel
’96 con la fondazione dell’associazione culturale
“Confronto”, poi tramutatasi in movimento politico,
con la quale aveva partecipato alle precedenti amministrative,
conquistando un posto in consiglio comunale. Dal 2000 è
iscritto a Forza Italia.
Il nostro lungo cammino si ferma qui.
Avremmo voluto raccontarvi anche altro ma lo spazio è
tiranno. Cinque secoli fa Cava era una delle città
più importanti del Mezzogiorno d’Italia, oggi
è un centro del Sud che deve lottare contro
disoccupazione e camorra. Ha ancora importanti energie per
offrire ai suoi abitanti una vita accettabile, istruzione ai
giovani e una decente vecchiaia agli anziani. La sfida è
ardua. Per vincerla occorre l’apporto di gente onesta,
preparata e amante di queste secolari montagne che proteggono
questa valle, i suoi abitanti e il loro lavoro da migliaia di
anni.
FINE
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